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Nomi della Shoah

Il pregiudizio e la maldicenza

i “caratteri del tipo giudaico”


la “giudaica perfidia”
Conferenza di Daniele Menozzi

presentazione del libro di Daniele Menozzi: “Giudaica perfidia. Uno stereotipo antisemita fra liturgia e storia”. Incontro organizzato dalla Fondazione Alfred Lewin.

«Preghiamo anche per i perfidi giudei», così recita nel venerdì santo il Missale romanum di Pio V, pubblicato nel 1570, sintetizzando l’immagine degli ebrei nella liturgia latina. Stanno qui le radici di uno stereotipo antisemita che le traduzioni in volgare dei testi liturgici introiettano nella mentalità cattolica. Ma dal tardo Settecento la cultura cattolica comincia a interrogarsi su questo «insegnamento del disprezzo» trasmesso dal culto pubblico e ufficiale della chiesa. Gli eventi culminati nella Shoah avviano poi un decisivo confronto con la storia, portando a un riesame del rapporto con gli ebrei. Lo testimoniano tormentati rifacimenti della preghiera del venerdì santo da Giovanni XXIII fino ai nostri giorni.


lettera da Ancona


l’accusa di deicidio
intervista ad Anna Foa

le leggi razziali

il testo della legge

i primi effetti



Intervista a
Marie-Anne Matard Bonucci

Lo zelo italiano

In Italia, a differenza che in Francia, l’antisemitismo politico non ha preso piede e Mussolini, malgrado sia antisemita, per quindici anni ha lasciato in pace gli ebrei: perché all’improvviso le leggi razziali? La risposta non può che rimandare a un bisogno vitale di ogni totalitarismo: la mobilitazione permanente attraverso l’invenzione del nemico; malgrado l’impopolarità le leggi razziali furono applicate con successo: come fu possibile?
Intervista a Marie-Anne Matard Bonucci.

Intervista a Miro Tasso

Italianchic!

Nel 1927 il regime fascista varò un decreto per l’italianizzazione dei cognomi della provincia
di Trieste che si riteneva fossero stati “slavizzati” e per quelli di matrice straniera; i provvedimenti
di restituzione e riduzione e il ritardo con il quale lo Stato rimediò al suo errore; la figura di Aldo Pizzigalli. Intervista a Miro Tasso.

IL RITROVAMENTO

Intervista al presidente della Fondazione Alfred Lewin, Rosanna Ambrogetti, e a Gianni Saporetti, sul ritrovamento dei resti delle vittime delle stragi dell’aeroporto di Forlì.

Pubblicata su Questa città n. 4, febbraio 2012

 

E IL CAMION SVOLTO' A SUD...

Il 27 gennaio, in occasione della Giornata della memoria, è stato organizzato dal Comune di Forlì con la collaborazione, fra gli altri, dell’Università di Bologna e della Fondazione Alfred Lewin, un “pellegrinaggio” sui luoghi dell’eccidio di ebrei avvenuto a Forlì nel settembre del ‘44. Ne parliamo con Rosanna Ambrogetti, Presidente della Fondazione che prende il nome da una delle vittime dell’eccidio, un giovane ebreo berlinese, e con Gianni Saporetti, consigliere.

Potete raccontare come siete venuti a conoscenza dell’eccidio di ebrei ed ebree avvenuto qui a Forlì nel settembre del ‘44?
Rosanna. è avvenuto nel ‘91, per caso, per quel che ci riguarda. Dico per quel che ci riguarda perché il fatto invece era già venuto fuori da uno studio della professoressa Paola Saiani per l’Istituto storico della resistenza, pubblicato nel bollettino dell’Istituto. Però, evidentemente, era passato abbastanza inosservato. Noi, per esempio, che avevamo iniziato da poco a fare la rivista “Una città” ed eravamo molto interessati al tema della memoria della Shoà, non ne sapevamo nulla.
Quindi un giorno che eravamo andati all’Istituto per qualche motivo che adesso non ricordo, ci capitò tra le mani questo bollettino, lo aprimmo, e passandocelo di mano, restammo attoniti: una strage di ebrei era avvenuta a Forlì nel ‘44. Diciotto ebrei fra cui sette donne, una madre con il figlio, un marito con la moglie e la figlia, intere famiglie.
Rimanemmo molto colpiti, perché così come non lo sapevamo noi, pensammo che non lo sapesse quasi nessuno in città, e in effetti era così. Era una strage dimenticata. Qualche giorno dopo andammo al cimitero, perché nel bollettino c’era scritto che le salme erano state riesumate nel ‘45 dalla fossa comune di via Seganti, la via dell’aeroporto, e portate al cimitero monumentale. Al cimitero il custode ci fece vedere negli archivi tutti i certificati di morte, poi, guardando nel registro, ci indicò sulla piantina due file di loculi in alto a destra dell’ossario. Ci andammo e là individuammo a fatica una lunga fila di loculi anonimi, interrotta da sette con nomi strani, ebraici.
Ecco, vedere queste tombe completamente anonime, lassù in alto, senza alcuna possibilità che venissero notate da qualcuno, è stato il secondo shock. Lì decidemmo di muoverci. Trovammo subito, ovviamente, la disponibilità del Comune e organizzammo un convegno cui parteciparono, oltre al rabbino Luciano Caro di Ferrara, che è il rabbino anche della Romagna, Tullia Zevi, allora presidente delle comunità ebraiche italiane, storici come Fabio Levi e Gianni Sofri e Liliana Picciotto Fargion del Centro di documentazione ebraico di Milano; e dal convegno venne fuori la proposta di dare degna sepoltura agli ebrei fucilati. Quindi i resti furono riesumati e ora la tomba può essere visitata nella parte destra del Monumentale, proprio a ridosso della via Ravegnana.
Quando nel ‘45 aprirono la fossa comune non tutti erano stati riconosciuti?
Gianni. Sì. Questo perché i secondini, su consiglio del prefetto, non si presentarono a tentare il riconoscimento, mentre le suore addette al reparto femminile del carcere, malgrado anche il vescovo le avesse sconsigliate, andarono e così le donne ebree furono riconosciute. Era passato un anno, probabilmente il riconoscimento poteva avvenire ancora abbastanza agevolmente. Infatti le suore riconobbero anche i resti di Alfred Lewin, figlio di Jenni Hammerschmidt. Forse perché avevano ben presente la vicenda di questa madre e di suo figlio, che internato ormai al sud, in un posto ben più sicuro (infatti gli ebrei internati a Salerno si salveranno in tanti) aveva chiesto “l’avvicinamento” alla madre che al nord viveva ormai in condizioni di indigenza.
Quindi tutti i loculi dei maschi, eccetto quello di Alfred, erano anonimi.
Erano tutti ebrei stranieri?
Gianni. Diciassette erano stranieri, tedeschi, austriaci e polacchi. Fuggivano dalle leggi razziali tedesche o da una guerra che diventava sempre più imminente. A questi va aggiunto Gaddo Morpurgo, l’unico ebreo italiano fucilato nel ‘44, e il cui nome in un primo tempo non figurava nel gruppo. Ma è stato accertato senza ombra di dubbio che era nel carcere di Forlì il giorno della fucilazione e, a una conta più accurata dei resti dei fucilati, è risultato che il numero dei fucilati era superiore di una unità.
Ma come avete conosciuto Lissi Lewin?
Rosanna. Sempre per caso. Succede che all’Istituto storico della resistenza di Reggio Emilia, a cui evidentemente arriva il materiale del nostro convegno e della cerimonia della nuova sepoltura, fa il servizio civile un giovane tedesco della ex Germania Est, figlio di amici di famiglia di una certa Lissi Pressl, che fa Lewin di cognome da ragazza. Sì, era la sorella di Alfred e figlia di Jenni Hammerschmidt, fucilati a Forlì. Lui avvisa Lissi, che non aveva saputo più niente del fratello e della mamma, lei ci contatta e quasi subito viene a Forlì, va sulla tomba della mamma e del fratello, va anche nelle scuole, e diventiamo amici.
Ovviamente la intervistammo per “Una città”. è una bella intervista che lei conclude dicendo: “Beh, adesso finalmente so cos’è successo ai miei, so dove sono seppelliti, ed è un gran sollievo; per me si chiude una parentesi durata cinquantasette anni e vi ringrazio di tutto cuore”.
Lì avete conosciuto tutta la storia…
Rosanna. Sì, lì scopriamo un po’ tutta la storia. Loro erano venuti via dalla Germania per via delle leggi razziali. Tanti ebrei polacchi, austriaci, tedeschi, venivano in Italia perché girava voce che l’Italia, per gli ebrei, malgrado il fascismo, fosse un posto tra i più sicuri in Europa. Coi risparmi che avevano potuto portar con loro, avevano messo su una panetteria a Cremona e le cose erano andate bene fino al ‘38. Poi, con le leggi razziali italiane, la situazione per loro precipitò di nuovo.
E lì ci fu l’intelligenza della mamma e del fratello che decisero di mandare via la sorella, ancora giovane e in età per essere ancora accolta in Inghilterra a fare la ragazza alla pari. C’è da dire infatti che in Inghilterra accettavano solo giovani ebree come ragazze alla pari. Vincendo la sua grande resistenza, la convinsero a partire; e così facendo le salvarono la vita.
In Inghilterra poi, Lissi si innamora di un comunista tedesco, che aveva fatto la Resistenza in Cecoslovacchia, lo sposa, resta incinta, e finita la guerra lo segue nel suo sogno di tornare a costruire la Germania nuova, la Germania come si deve. Va a vivere a Berlino Est. Fatto sta che così, per via del Muro, della separazione della Germania e dell’Europa, lei non potrà più neanche muoversi per cercare notizie dei suoi.
Gianni. Le arriveranno solo due lettere, una della Croce rossa per dirle che un Alfred Lewin, segnalato in Olanda e reduce da Belsen, non è suo fratello e una, degli inglesi, per dirle che probabilmente sua mamma e suo fratello erano morti in Romagna. Quindi passano cinquantasette anni senza che possa sapere nulla.
E’ stata un’esperienza importante per voi…
Rosanna. Beh, sì. Conoscere Lissi, diventare suoi amici, è stato un grande privilegio. Tant’è che ci ha fatto venire l’idea di fare la Fondazione Alfred Lewin, una piccola e povera fondazione, che però dedica il suo impegno alla memoria e a tener vivi fra i giovani gli ideali che erano anche di Alfred. Alfred e Lissi erano giovani socialisti del Bund berlinese, l’organizzazione ebraica socialista tedesca. Alfred amava le lingue e voleva che Lissi le imparasse, era un internazionalista, pensiamo che credesse nell’Europa.
Gianni. Ma anche rispetto alla memoria incontrare Lissi ci ha fatto capire che se si vuole parlare ai giovani bisogna raccontare il dipanarsi delle piccole storie nella bufera tremenda della storia “grande”: quand’è che una famiglia decide di muoversi da dove è sempre stata, dove si sentiva a casa sua? Immaginare le discussioni, fra chi prevede il peggio e chi non vuole crederci, “fa lavorare” un ragazzo. Lissi raccontava che il fatto che li fece decidere di venir via da Berlino, fu quando, a una riunione del loro gruppo di giovani socialisti, arrivò una squadraccia di giovani nazisti e il fratello, per prendere le difese della sorella, fu picchiato duramente ed ebbe due denti rotti. Questo fatto impressionò molto anche la mamma.
Oppure pensiamo al momento tragico in cui dei genitori capiscono di essere diventati un pericolo per i loro figli e li devono scacciare per tentare di salvarli. Ecco, lì i ragazzi riescono a immedesimarsi. Altrimenti la memoria rischia di diventare o vuota retorica o il doveroso ricordo di un orrore “esotico”, che a loro non potrà mai capitare. Ecco, incontrare Lissi ci ha insegnato questo. Vittorio Foa in un’intervista che gli facemmo, ci disse che eravamo riusciti a rendere viva la memoria… Ma non avevamo alcun merito, ovviamente.
Quindi lei è rimasta anche in contatto con voi…
Gianni. Sì, ed è venuta a trovarci varie volte, ha continuato a seguire con grande soddisfazione tutto il lavoro della Fondazione. Rosanna. Dal 2003 fino alla sua morte, avvenuta il 25 settembre del 2009, è stata Presidente onoraria della Fondazione… Ma non è stato solo un omaggio formale, perché lei è venuta a Forlì per i giorni della memoria, e si è instaurato un vero rapporto di scambio. Seguiva le vicende italiane e ogni tanto ci mandava ritagli di articoli di fatti che avvenivano in Germania, soprattutto riguardanti rigurgiti di razzismo. Possiamo dire che si era molto legata a Forlì…
Quindi avete continuato a cercare…
Gianni. Sì, abbiamo conosciuto i Morpurgo e pubblicato il diario di Attilio Morpurgo, padre di Gaddo. Anche la loro storia è emblematica. Attilio è il capo della comunità ebraica di Gorizia, una comunità importante, ed è una persona anziana, malandata di salute, ma molto avveduta.
Vive con la moglie, la governante, e il figlio Gaddo; il figlio grande l’ha già mandato al sicuro a Roma, e lui è pronto a far partire anche Gaddo, lo dice nel diario, è pronto a farlo partire da un momento all’altro, perché evidentemente ha modo, sa come fare… Quando vengono via da Gorizia dopo l’8 settembre, fanno tappa a Venezia dai cugini e poi arrivano a Bologna e lì si fermano. Una sera la moglie, la governante e Gaddo sentono alla radio che hanno inasprito le leggi razziali, ma non dicono niente al vecchio perché sta male, è malato di cuore e hanno paura che lo stress sia troppo forte. Il giorno dopo arrivano a prendere Gaddo. E dal diario poi, in diversi punti, si capisce che il vecchio alle due donne non perdona di non averlo avvisato quella sera.
Per un po’ il vecchio padre saprà dov’è Gaddo dalle cartoline che arrivano da un campo di concentramento a Senigallia, poi all’improvviso di lui non si sa più nulla. Gaddo gli sparisce in un raggio d’azione che alla fine sarà di cinquanta km e il vecchio padre, per tutta la vita che gli resterà, non saprà cos’è successo al figlio. è una storia terribile, alla Giobbe. Infatti, nel diario, il vecchio padre in un punto, con tutto il garbo possibile, però qualcosa dice: “Spero quindi ancora nella bontà di Dio”, quasi a volere avvertire Dio che la sua pazienza non è infinita.
Rosanna. Anche la storia di Bernard Bruner è emblematica. Bruner era in Italia dal ‘22. Grande esperto del legno piegato, le famose sedie thonet, dopo aver lavorato a Milano, proprio nella fabbrica Thonet, era venuto a lavorare in Romagna, a Cesenatico. A leggere gli incartamenti fa impressione, perché il suo datore di lavoro scrive lettere su lettere perché glielo lascino, perché era lui, artigiano provetto, a tenere in piedi la fabbrica; e i funzionari accettano, glielo lasciano, per due o tre volte, poi alla fine glielo prendono. E Bruner, nelle lettere che manda a sua volta, cita le decorazioni ricevute durante la prima guerra mondiale, da lui combattuta come austro-ungarico, ma non c’è niente da fare. Verrà fucilato a Forlì con la moglie.
Poi, ci sono i Rosenbaum, che stanno per arrivare in Israele, con una nave presa a Trieste, ma questa viene fermata per il blocco navale a Bengasi ed è costretta a ritornare indietro. Anche i Rosembaum si ritroveranno, marito, moglie e figlia al carcere di Forlì nel settembre del ‘44.
Poi, grazie all’Istituto storico della resistenza, abbiamo trovato la lettera di Maria Rosensweig Pächt, che scrive al figlio, al sicuro in Svizzera. Evidentemente anche loro si sono separati dal figlio che, infatti, si salverà. è una lettera straziante, in cui gli dà anche delle indicazioni molto concrete, su dove sono i mobili, dove hanno lasciato le cose, eccetera, e poi c’è un post-scriptum che dice: “Ecco, stamattina stanno arrivando e ci portano via”…
Cosa avevano detto loro?
Rosanna. Gli avevano detto che andavano in Germania, dove avevano già mandato i loro uomini una settimana prima. Anche alle suore dissero che le portavano in Germania, però, racconta la testimonianza di una suora, quando vedono che uscendo dal carcere, ad aspettarli ci sono i tedeschi armati “gli si stringe il cuore”… Poi, quando cadono delle mele (che i tedeschi avevano consigliato di portare per il viaggio), un tedesco corre a raccoglierle e la suora dice di aver pensato: “Mah, forse è vero che vanno in Germania, poi, però, abbiamo visto che il camion voltava verso sud…”.
Come mai l’aeroporto?
Rosanna. Vanno all’aeroporto perché lì ci sono le buche già predisposte per via dei crateri fatti dai bombardamenti alleati.
Chi sono gli esecutori materiali?
Gianni. Anche lì non si può sapere. Di sicuro c’erano i fascisti insieme ai tedeschi. Dai referti risulta che diversi furono colpiti alle gambe e poi da un colpo alla nuca. Quindi, perché colpiti alle gambe? Perché chi ha sparato non voleva essere lui a uccidere? Però c’è anche un referto che, a proposito di una donna ebrea, parla di “strangolamento con benda”, per cui, viene anche il dubbio orribile che ci sia stato del sadismo. Ma questo è secondario, alla fine.
E il perché della fucilazione?
Rosanna. Non si sa bene. Dopo un mese il fronte si muove, quindi una delle ipotesi è che si siano voluti liberare in fretta di tutti quelli che erano in carcere, ebrei e non ebrei. Infatti fucilarono anche parenti di partigiani, il colonnello Edoardo Cecere, la marchesa Pellegrina Paulucci di Calboli…
Voi avete detto che la scritta del cippo di via Seganti è sbagliata. Perché?
Gianni. è un argomento un po’ delicato questo. Nel cippo c’è questa scritta che comprende tutti i nomi degli ebrei e degli altri: “Caduti per la libertà”. Mi hanno chiamato ad accompagnare i ragazzi nel giro dei luoghi dell’eccidio e davanti al cippo ho cercato di spiegarlo, ma si fa fatica francamente, perché lì c’erano i nomi delle ebree Rosembaum, madre e figlia, fucilate insieme alle italiane Vergari, madre e due figlie, anch’esse fucilate insieme. è difficile fare delle differenze, anzi, se prendiamo il punto di vista della vittima e il tasso di atrocità e di sofferenza che ha dovuto subire, non c’è alcuna differenza. Ma è importante capire anche il punto di vista dei carnefici, e la scritta “caduti per la libertà” lo richiama indirettamente: chi li ha fucilati evidentemente la libertà la conculcava. Ecco, questo, se può essere vero per le Vergari, parenti di un partigiano e forse resistenti loro stesse, è falso per gli ebrei che furono fucilati in quanto ebrei e basta.
Voi avete raccolto anche del materiale sulle leggi razziali?
Rosanna. Sì, ma anche perché abbiamo avuto una dei nostri, Patrizia Betti, che ha fatto una ricerca per la sua tesi, e ha raccolto parecchio materiale. Ed è impressionante la quantità di lavoro burocratico che comportarono le leggi razziali. Il divieto di presiedere le opere pie, di avere una colf ariana, poi la chiusura dei negozi, l’espulsione da scuola dei bambini, il blocco dei conti correnti e delle cassette di sicurezza, eccetera eccetera… Ora, a parte chi ne ha approfittato, come il professore universitario che ereditò la cattedra di un ebreo o chi frequentava le aste a cui andavano i beni degli ebrei, dovevano essere tantissimi i funzionari che vedevano cosa stava succedendo. E cosa hanno pensato? E avevano dei margini per fare qualcosa?
Gianni. Ci sono aspetti che lasciano interdetti. Quando ormai il funzionario non rischia più nulla, cioè dopo la liberazione, perché un prefetto consiglia di non andare a riconoscere i resti dei fucilati? E perché non c’è neanche un secondino che disattenda quello che alla fine era solo un consiglio? Noncuranza, che però il vecchio Attilio pagherà con un di più di sofferenza per il resto della vita: non aver saputo neanche dov’era sepolto il figlio. E abbiamo la risposta del questore di Forlì a una lettera del Comitato emigrazione Palestina, a cui s’è rivolto Attilio, che è dir poco gelida, se non brutale: Gaddo Morpurgo è stato deportato in data tal dei tali per destinazione sconosciuta. Possibile che il questore non sapesse delle fucilazioni? Se ne lavò le mani, di fronte a un vecchio padre disperato e sofferente di salute. Se proiettiamo indietro atteggiamenti simili, quando ad aiutare qualcuno si poteva rischiare molto, possiamo immaginare cosa può essere successo. Ciònondimeno in tanti hanno aiutato.
A questo riguardo com’è la storia delle lapidi?
Rosanna. Beh, questa è una cosa irrilevante da non enfatizzare, ma che comunque può dire qualcosa sulla noncuranza dei funzionari per tutto ciò che esula dal loro mansionario. Pochi giorni dopo la nuova sepoltura, eravamo lì in sede e uno di noi ha detto: “Che fine avranno fatto le lapidi dei sette loculi?”, “Beh, proviamo a telefonare”. Chiamiamo il direttore del cimitero che non sa niente ma gentilmente dice che si informerà e ci richiamerà. Infatti richiama subito e dice: “Ah, sono già dal marmorino per rilevigarle e riciclarle”. Ci siamo precipitati e abbiamo fatto in tempo a riscattarle e ora sono nel cortile, qui, della Fondazione.
(a cura di Tonino Gardini)

vedere
i loculi anonimi,
lassù in alto, senza alcuna possibilità
di essere notati,
è stato il secondo shock

una lettera della Croce rossa per dirle che un Alfred Lewin, segnalato in Olanda e reduce da Belsen, non è suo fratello

quando
i genitori capiscono
di essere diventati
un pericolo
per i loro figli
e li devono scacciare
per tentare di salvarli

“Spero quindi ancora nella bontà di Dio”, quasi a volere
avvertire Dio che
la sua pazienza non è infinita

l’ossario

Prima che cominciasse il lavoro di recupero della memoria delle vittime delle stragi dell’aeroporto di Forlì, era qui che riposavano i resti di questi diciotto ebrei: nell’ossario di Forlì, dietro ad alcune lapidi. Qui le foto del luogo.

Qui i documenti del cimitero contenenti le posizioni dei resti:

la degna sepoltura

Solo nel ‘94, grazie all’impegno di alcuni cittadini, le vittime delle stragi dell’aeroporto trovarono degna sepoltura e la città di Forlì ricordò finalmente la strage.

Di seguito, interventi da un convegno tenutosi a Forlì nel 1991 e gli interventi alla cerimonia di scoprimento della lapide sulla tomba degli ebrei caduti nel ’44.

da Una città n. 13, maggio 1992

PAGINE PER PAGINE,
PERSONE PER PERSONE,
BAMBINI PER BAMBINI


Iniziamo la pubblicazione dei principali interventi della “giornata di ricordo, riparazione e riflessione”, che nel mese di febbraio abbiamo organizzato in collaborazione con l’Associazione di Amicizia Ebraico-Cristiana di Forlì, l’Istituto Storico della Resistenza e l’Associazione Italia-Israele di Cesena, a ricordo delle donne e uomini ebrei caduti a Forlì negli eccidi del settembre ’44.

Li­lia­na Pic­ciot­to Far­gion la­vo­ra al cen­tro di Do­cu­men­ta­zio­ne Ebrai­co di Mi­la­no ed è au­tri­ce de “Il li­bro del­la me­mo­ria”, l’e­len­co di tut­ti gli Ebrei de­por­ta­ti dal­l’I­ta­lia nel 43-45. Gian­ni So­fri è do­cen­te di Sto­ria al­l’U­ni­ver­si­tà di Bo­lo­gna. Nei pros­si­mi nu­me­ri pub­bli­che­re­mo al­tri in­ter­ven­ti, fra cui quel­lo di En­ri­co Dea­glio e Fa­bio Le­vi, sul­le leg­gi raz­zia­li e le re­spon­sa­bi­li­tà ita­lia­ne nel­la per­se­cu­zio­ne an­ti­se­mi­ta.

L’in­ter­ven­to di Li­lia­na Pic­ciot­to Far­gion
Vor­rei in­nan­zi tut­to rin­gra­zia­re gli or­ga­niz­za­to­ri di que­sta ma­ni­fe­sta­zio­ne e l’u­ni­ver­si­tà che ci ha ospi­ta­to, per aver­ci da­to la pos­si­bi­li­tà di in­con­tra­re il pub­bli­co di For­lì. Io la­vo­ro co­me ri­cer­ca­tri­ce pres­so un cen­tro stu­di di Mi­la­no che da pa­rec­chi an­ni si è po­sto co­me fi­na­li­tà quel­la di cer­ca­re di ri­co­strui­re l’am­bien­te e i no­mi del­le per­so­ne ar­re­sta­te e scom­par­se in Ita­lia du­ran­te l’oc­cu­pa­zio­ne te­de­sca e la Re­pub­bli­ca So­cia­le Ita­lia­na, tra il ’43 e il ’45. Que­sto la­vo­ro fu ini­zia­to da uno sto­ri­co fran­ce­se, Ser­ge Karl­feld che ne­gli an­ni ‘7O si mi­se in te­sta di ri­co­strui­re l’e­len­co esat­to de­gli ebrei che, dal­la Fran­cia, era­no scom­par­si nel nul­la. Si par­la­va di cen­to­mi­la per­so­ne di cui non si ave­va­no più trac­ce ma non c’e­ra nes­sun la­vo­ro or­ga­ni­co che ri­co­struis­se il lo­ro de­sti­no. Ri­cer­che di que­sto ge­ne­re fu­ro­no fat­te in se­gui­to an­che in Bel­gio, in Olan­da, in Ger­ma­nia, per la par­te ex-fe­de­ra­le, ed ora è sta­ta con­clu­sa an­che in Ita­lia. In que­sto la­vo­ro ho spe­so tre­di­ci an­ni del­la mia vi­ta, ma era un la­vo­ro che era già ini­zia­to ben pri­ma di me. La fi­na­li­tà prin­ci­pa­le -che ne è an­che una let­tu­ra un po’ mo­ra­le- è quel­la di re­sti­tui­re un vol­to, una per­so­na­li­tà, una di­gni­tà a per­so­ne che era­no de­sti­na­te a scom­pa­ri­re nel nul­la. La ri­cer­ca va quin­di nel­l’e­sat­to sen­so con­tra­rio a quel­lo in­te­so dal­le fi­na­li­tà na­zi­ste.
Che co­sa ave­va­no in te­sta i na­zi­sti per gli ebrei d’Eu­ro­pa? Dal I941 in poi, ave­va­no in te­sta di eli­mi­nar­li com­ple­ta­men­te, non so­lo fi­si­ca­men­te, ma eli­mi­nar­ne an­che il ri­cor­do, la me­mo­ria, la cul­tu­ra, i be­ni, le pos­si­bi­li­tà di ge­ne­ra­re fi­gli. Il pro­ce­di­men­to che ven­ne lo­ro ap­pli­ca­to fu stu­dia­to e por­ta­to a ter­mi­ne scien­ti­fi­ca­men­te. Que­sta gi­gan­te­sca im­pre­sa, che i na­zi­sti chia­ma­va­no la “so­lu­zio­ne fi­na­le” del pro­ble­ma ebrai­co, ini­ziò ap­pun­to nel 1941 ed eb­be con­clu­sio­ne so­la­men­te con la li­be­ra­zio­ne del­l’Eu­ro­pa nel 1945. Nel frat­tem­po la mag­gior par­te del­la co­mu­ni­tà ebrai­ca eu­ro­pea fu di­strut­ta.
L’Eu­ro­pa era il luo­go più po­po­lo­so di co­mu­ni­tà ebrai­che; c’e­ra una Po­lo­nia po­po­lo­sis­si­ma di ebrei, si par­la di tre mi­lio­ni di per­so­ne; la Rus­sia in­va­sa dal­le ar­ma­te te­de­sche era pie­na di ebrei e quan­do di­co ebrei, in­ten­do tut­ta la lo­ro cul­tu­ra, il lo­ro mo­do di pen­sa­re, di agi­re, il lo­ro mo­do di rap­por­tar­si al­la so­cie­tà, di leg­ge­re i li­bri, di leg­ge­re la lo­ro tra­di­zio­ne e di pro­spet­ta­re un lo­ro fu­tu­ro. Tut­to ven­ne di­strut­to. La Po­lo­nia di og­gi non ha più nes­su­na me­mo­ria ebrai­ca; era un pae­se che ave­va tre mi­lio­ni di ebrei e og­gi ne ha tre, quat­tro­mi­la. So­no ri­ma­ste po­chis­si­me trac­ce; in quel luo­go, og­gi, si par­la or­mai di ar­cheo­lo­gia.
Quan­do i na­zi­sti oc­cu­pa­ro­no l’I­ta­lia, nel 1943, do­po l’8 set­tem­bre, mi­se­ro in pra­ti­ca quel­lo che ne­gli al­tri pae­si oc­cu­pa­ti era già sta­to pie­na­men­te av­via­to. Nel re­sto del­l’Eu­ro­pa il pro­get­to di ster­mi­nio era già in pie­no svol­gi­men­to. Ci fu­ro­no va­rie fa­si.
Si ini­ziò nel 1941, con le fu­ci­la­zio­ni in mas­sa di in­te­ri vil­lag­gi ebrai­ci nel­la Rus­sia so­vie­ti­ca. Le ar­ma­te te­de­sche che avan­za­va­no per in­va­de­re l’U­nio­ne So­vie­ti­ca ave­va­no al­le spal­le uno spe­cia­le di­stac­ca­men­to, le “ein­sa­tz­grup­pen”, grup­po di as­sal­to spe­cia­le, for­ma­to da fu­ci­lie­ri di pro­fes­sio­ne, ad­de­stra­to al­le fu­ci­la­zio­ni. Ogni vol­ta che ar­ri­va­va­no in un vil­lag­gio, fa­ce­va­no il cen­si­men­to e se­pa­ra­va­no gli ebrei dal re­sto del­la po­po­la­zio­ne. Do­ve­te im­ma­gi­na­re che era una po­po­la­zio­ne as­so­lu­ta­men­te ru­ra­le, mol­to sem­pli­ce, nes­su­no era in gra­do di ela­bo­ra­re, di ca­pi­re, di orien­tar­si be­ne su che co­sa stes­se suc­ce­den­do; stia­mo par­lan­do di pic­co­li vil­lag­gi del­lo sh­ted­tl del­l’U­nio­ne So­vie­ti­ca. Quin­di an­che la do­man­da ozio­sa che mi vie­ne po­sta cer­te vol­te: per­ché non si ri­bel­la­va­no? Non si ri­bel­la­va­no per­ché nes­su­no ave­va ca­pi­to che co­sa stes­se suc­ce­den­do, que­sta è la ve­ri­tà. Que­ste “ein­sa­tz­grup­pen” fe­ce­ro un enor­me ba­gno di san­gue di più di un mi­lio­ne di per­so­ne nel gi­ro di un an­no e que­sta è ma­te­ria do­cu­men­ta­ta; tut­ti i ten­ta­ti­vi dei re­vi­sio­ni­sti, di que­sti sto­ri­ci co­sid­det­ti re­vi­sio­ni­sti, che osa­no ne­ga­re la real­tà dei fat­ti, so­no as­so­lu­ta­men­te una men­zo­gna pre­te­stuo­sa: ri­man­go­no le re­la­zio­ni che i ca­pi del­le “ein­sa­tz­grup­pen” ogni se­ra man­da­va­no a Ber­li­no sul­la quan­ti­tà di gen­te che era­no riu­sci­ti ad uc­ci­de­re in quel gior­no; ci so­no dei fil­ma­ti, ci so­no del­le fo­to­gra­fie. Do­po que­sta pri­ma fa­se del­la co­sid­det­ta so­lu­zio­ne fi­na­le, una fa­se, per co­sì di­re, sel­vag­gia, ce ne fu una se­con­da più pen­sa­ta, più po­li­ti­ca­men­te mi­ra­ta, e fu la fa­se del­la “ghet­tiz­za­zio­ne”, del­la riu­nio­ne den­tro i ghet­ti de­gli ebrei di tut­ti i pae­si del­l’Eu­ro­pa del­l’e­st. Il pro­ce­di­men­to era que­sto: si riu­ni­va­no pro­gres­si­va­men­te le per­so­ne al­l’in­ter­no di zo­ne se­pa­ra­te del­la cit­tà che ave­va­no del­le mu­ra, dal­le qua­li non po­te­va­no né en­tra­re né usci­re, se non sot­to sor­ve­glian­za te­de­sca; i te­de­schi, dal­l’e­ster­no, ave­va­no nel­le ma­ni la ge­stio­ne del vet­to­va­glia­men­to ge­ne­ra­le, sic­ché po­te­va­no con gran­de agio af­fa­ma­re e de­bi­li­ta­re la po­po­la­zio­ne in­ter­na. Nel gi­ro di sei me­si, nel ’42, ’43, mi­glia­ia di per­so­ne si ri­tro­va­ro­no, al­l’in­ter­no di que­sti ghet­ti – il più fa­mo­so dei qua­li, per la gran­de ri­vol­ta che vi eb­be luo­go, fu il ghet­to di Var­sa­via – a vi­ve­re in con­ti­gui­tà, in pro­mi­scui­tà as­so­lu­te; si par­la di quin­di­ci per­so­ne in una so­la stan­za. Que­ste per­so­ne era­no de­bi­li­ta­te an­che psi­co­lo­gi­ca­men­te. Ad un cer­to pun­to ven­ne mes­sa in at­to la de­por­ta­zio­ne dei ghet­ti ver­so del­le strut­tu­re di ster­mi­nio ap­po­si­ta­men­te crea­te. Ogni ghet­to ave­va nel­le vi­ci­nan­ze, tra i tren­ta e i qua­ran­ta chi­lo­me­tri di di­stan­za, un co­sid­det­to cam­po del­la mor­te, di cui qua­si nes­su­no co­no­sce l’e­si­sten­za. So­no no­mi che non ci so­no no­ti, no­mi po­lac­chi e rus­si, pro­vo a dir­ne qual­cu­no: Tre­blin­ka, Mai­da­nek, Chelm­no, So­bi­bor; era­no cam­pi di ster­mi­nio, in pra­ti­ca dei mat­ta­toi. Per esem­pio, dal ghet­to di Var­sa­via, al mat­ti­no, ve­ni­va­no ca­ri­ca­ti dei tre­ni, ve­ni­va­no da­te del­le pa­gnot­te al­le per­so­ne, ve­ni­va lo­ro det­to che li si por­ta­va fuo­ri per far­li la­vo­ra­re, ve­ni­va­no por­ta­ti a Tre­blin­ka e lì ve­ni­va da­ta lo­ro la mor­te im­me­dia­ta­men­te tra­mi­te del­le ru­di­men­ta­li ca­me­re a gas. Que­sto suc­ce­de­va ogni mat­ti­na. Al po­me­rig­gio i tre­ni ri­tor­na­va­no vuo­ti del­le per­so­ne. Que­sto an­dò avan­ti per sei-set­te me­si, fi­no a quan­do i gio­va­ni del ghet­to di Var­sa­via non co­min­cia­ro­no a pen­sa­re che qual­co­sa non an­da­va, non era pos­si­bi­le che tan­ta gen­te an­das­se a la­vo­ra­re al mat­ti­no e non ri­tor­nas­se la se­ra. Quel­lo fu pro­prio l’i­ni­zio del­la de­ci­sio­ne del­la ri­vol­ta. Que­sti cam­pi del­la mor­te en­tra­ro­no in fun­zio­ne per cir­ca un an­no, un an­no e mez­zo, co­pri­ro­no la fi­ne del 1941 e tut­to il 1942. Era­no strut­tu­re mol­to ru­di­men­ta­li, non era­no sta­te stu­dia­te be­ne: le ca­me­re a gas non era­no ab­ba­stan­za gran­di, qual­che vol­te la mor­te non so­prav­ve­ni­va in fret­ta, non si sa­pe­va co­sa fa­re dei ca­da­ve­ri, co­sì ci fu­ro­no va­rie riu­nio­ni nel­le cen­tra­li ber­li­ne­si del­la po­li­zia, nei va­ri mi­ni­ste­ri de­gli in­ter­ni, per pen­sa­re ad un me­to­do che fos­se più ef­fi­ca­ce, so­prat­tut­to nel­la pre­vi­sio­ne del­la de­por­ta­zio­ne e del­lo ster­mi­nio de­gli ebrei an­che del­l’Eu­ro­pa oc­ci­den­ta­le.
Dai re­spon­sa­bi­li dei mi­ni­ste­ri te­de­schi do­po que­sta con­fe­ren­za di Gros­ser Wann­see, che eb­be luo­go il 2O gen­na­io del I942, fu de­ci­so che tut­ti gli ebrei d’Eu­ro­pa, i so­prav­vis­su­ti ai ba­gni di san­gue del­la Rus­sia, del­la Po­lo­nia, e an­che quel­li del­l’Eu­ro­pa oc­ci­den­ta­le, do­ves­se­ro fi­ni­re in un uni­co luo­go.
Fu scel­to Au­sch­wi­tz, in Al­ta Sle­sia, un ter­ri­to­rio po­lac­co pro­tet­to ri­spet­to agli al­lea­ti che in­tan­to sta­va­no com­bat­ten­do con­tro la Ger­ma­nia (dal­la Po­lo­nia dif­fi­cil­men­te tra­pe­la­va­no le no­ti­zie). Que­sto cam­po fun­zio­na­va già, per i pri­gio­nie­ri di guer­ra so­vie­ti­ci e co­me cam­po di pu­ni­zio­ne per i po­lac­chi an­ti­na­zi­sti. In una par­te di que­sto cam­po, chia­ma­ta Bir-ke­nau, a qual­che chi­lo­me­tro di di­stan­za, nel cir­con­da­rio, fu crea­to un gi­gan­te­sco luo­go do­ta­to di tut­ti i mo­der­ni si­ste­mi per da­re la mor­te. Que­sto nuo­vo cam­po si chia­mò Au­sch­wi­tz-Bir­ke­nau. Lì fu­ro­no co­strui­ti, con gran­dis­si­ma ra­pi­di­tà, dei nuo­vi im­pian­ti che con­si­ste­va­no in gi­gan­te­schi sa­lo­ni -chia­mia­mo­li co­sì- che ser­vi­va­no per “ga­sa­re” le per­so­ne; ave­va­no le por­te sta­gne, era sta­to stu­dia­to tut­to il si­ste­ma di ae­ra­zio­ne. Quin­di non so­no re­spon­sa­bi­li so­lo co­lo­ro che or­di­na­ro­no di fa­re que­sto cam­po: ci fu­ro­no schie­re di in­ge­gne­ri che stu­dia­ro­no le strut­tu­re per lo ster­mi­nio, ci fu l’a­zien­da che le co­struì. Que­ste ca­me­re a gas po­te­va­no uc­ci­de­re qual­che mi­glia­io di per­so­ne in una so­la vol­ta, do­po­di­ché i cor­pi ve­ni­va­no cre­ma­ti da de­gli ad­det­ti. Ar­ri­va­va­no ad Au­sch­wi­tz-Bir­ke­nau gior­nal­men­te de­ci­ne di tre­ni da tut­ta Eu­ro­pa; le per­so­ne ve­ni­va­no ar­re­sta­te nei lo­ro luo­ghi di re­si­den­za, dal­la po­li­zia te­de­sca o, in cer­ti ca­si, dal­la po­li­zia lo­ca­le.
E co­sì ve­nia­mo al­l’I­ta­lia.
Chi fu che ar­re­stò que­ste per­so­ne? Chi riu­scì a tro­var­le, a rin­trac­ciar­le? Per­ché an­che que­sto è un pro­ble­ma. Per­ché, men­tre nel­l’Eu­ro­pa del­l’E­st gli ebrei han­no una cul­tu­ra par­ti­co­la­re, una lin­gua par­ti­co­la­re, che è l’y­id­dish, qual­che vol­ta si ve­sto­no an­che in ma­nie­ra par­ti­co­la­re, han­no que­ste bar­be, so­no fa­cil­men­te ri­co­no­sci­bi­li -lo era­no per­lo­me­no quan­do ce n’e­ra­no-, nel­l’Eu­ro­pa oc­ci­den­ta­le c’e­ra una gran­dis­si­ma in­te­gra­zio­ne, an­che a li­vel­lo di co­stu­mi e di cul­tu­ra, per cui un ebreo che pas­sa­va per la stra­da non era as­so­lu­ta­men­te ri­co­no­sci­bi­le. Per que­sto mo­ti­vo, in tut­ti i pae­si oc­cu­pa­ti, i na­zi­sti si pre­oc­cu­pa­ro­no di ave­re de­gli al­lea­ti. La po­li­zia te­de­sca non era as­so­lu­ta­men­te suf­fi­cien­te per rin­trac­cia­re tut­te le per­so­ne che do­ve­va­no es­se­re ar­re­sta­te, por­tar­le in un cam­po di in­ter­na­men­to e di tran­si­to e, quan­do il lo­ro nu­me­ro era suf­fi­cien­te, man­dar­le ad Au­sch­wi­tz-Bir­ke­nau. Sic­ché, an­che in Ita­lia, la po­li­zia te­de­sca do­vet­te gio­co­for­za ap­pog­giar­si al­la po­li­zia ita­lia­na.
Que­sto la­vo­ro, il re­cu­pe­ro di que­ste per­so­ne, di que­ste per­so­na­li­tà, è, pri­ma di tut­to, un la­vo­ro di ti­po mo­ra­le, ha una va­len­za mo­ra­le pri­ma an­co­ra che sto­rio­gra­fi­ca: quel­la di riu­sci­re a ri­tro­va­re i no­mi di tut­ti co­lo­ro che era­no de­sti­na­ti a scom­pa­ri­re nel nul­la. E’ quin­di un la­vo­ro che va nel sen­so con­tra­rio a quel­lo de­si­de­ra­to dai na­zi­sti, è un la­vo­ro an­ti­na­zi­sta per ec­cel­len­za. E’ inol­tre per noi un ri­chia­mo al­la no­stra co­scien­za, al­la no­stra me­mo­ria e al­la lo­ro me­mo­ria.
Que­sto la­vo­ro è sta­to fat­to per tre­di­ci lun­ghi an­ni, per ar­ri­va­re a que­ste set­te­cen­to pa­gi­ne, che so­no pa­gi­ne os­ses­si­ve, do­len­ti, che con­ten­go­no que­sto elen­co for­se un po’ ri­pe­ti­ti­vo, ma si è vo­lu­to far­lo ri­pe­ti­ti­vo, os­ses­sio­nan­te, os­ses­si­vo, co­sic­ché il let­to­re ab­bia l’i­dea, quan­do apre il li­bro, che an­che in Ita­lia c’è sta­to un gi­gan­te­sco di­sa­stro, che que­ste so­no pa­gi­ne e pa­gi­ne e que­ste so­no per­so­ne e per­so­ne, e que­sti so­no bam­bi­ni e bam­bi­ni.
Nel cor­so di que­sto la­vo­ro il Cen­tro di Do­cu­men­ta­zio­ne Ebrai­ca ha avu­to la pos­si­bi­li­tà di ve­de­re mol­tis­si­mi do­cu­men­ti; per una for­tu­na­ta coin­ci­den­za nel 1971 in Ger­ma­nia ini­ziò il pro­ces­so con­tro un cri­mi­na­le te­de­sco che si era mac­chia­to di cri­mi­ni in Ita­lia, Frie­dri­ch Bos­sham­mer, e la Pro­cu­ra di Sta­to di Ber­li­no chie­se al mio cen­tro stu­di di cer­ca­re tut­te le pro­ve a ca­ri­co per ac­cu­sar­lo. In que­sto mo­do ot­te­nem­mo i per­mes­si di ac­ces­so per gli ar­chi­vi di sta­to, per­mes­si che per al­lo­ra, nel 1970, era as­so­lu­ta­men­te im­pos­si­bi­le ot­te­ne­re. Co­sì riu­scim­mo a ve­de­re i fon­di del­la que­stu­ra e del­la pre­fet­tu­ra di va­ri ar­chi­vi di sta­to pe­ri­fe­ri­ci. Ri­cer­can­do le pro­ve a ca­ri­co di que­sto per­se­cu­to­re, ri­tro­vam­mo cen­ti­na­ia di do­cu­men­ti e mol­tis­si­mi era­no or­di­ni di ar­re­sto di que­sto o di quel­l’e­breo nel­le va­rie pro­vin­ce. Or­di­ni di ar­re­sto che non so­no af­fat­to fir­ma­ti da te­de­schi, ma da que­sto­ri e pre­fet­ti del­la Re­pub­bli­ca So­cia­le Ita­lia­na. Do­vem­mo ren­der­ce­ne con­to, e for­se fi­no ad al­lo­ra non l’a­ve­va­mo fat­to. La per­se­cu­zio­ne an­ti­e­brai­ca in Ita­lia eb­be, sì, una fa­se ini­zia­le te­de­sca. A Ro­ma ci fu il ra­strel­la­men­to del ghet­to -mol­ti films e mol­ti li­bri vi so­no de­di­ca­ti- che av­ven­ne il 16 ot­to­bre del 1943: i te­de­schi ar­ri­va­ro­no a Ro­ma e agi­ro­no nel gi­ro di ven­ti­quat­tro ore, con un ra­strel­la­men­to fe­ro­cis­si­mo, di sor­pre­sa, pe­ne­tran­do nel­le ca­se, sfon­dan­do le por­te, por­tan­do via la gen­te che an­co­ra era ad­dor­men­ta­ta, al­le cin­que del mat­ti­no. Fu una re­ta­ta au­to­no­ma, nel sen­so che ven­ne fat­ta da te­de­schi con me­to­di te­de­schi. Que­sta fa­se du­rò per tut­ti i me­si di ot­to­bre e di no­vem­bre. Ma al­la fi­ne di no­vem­bre ini­ziò la com­pe­ne­tra­zio­ne del­la po­li­ti­ca na­zi­sta con quel­la del­la Re­pub­bli­ca So­cia­le.
Fi­no al 30 no­vem­bre la Re­pub­bli­ca So­cia­le non era an­co­ra sal­da­men­te con­so­li­da­ta, Mus­so­li­ni ave­va dei pro­ble­mi per­ché i te­de­schi non vo­le­va­no la­sciar­gli un eser­ci­to, non si sa­pe­va se la po­li­zia era fe­de­le al re­gi­me, se la bu­ro­cra­zia e l’am­mi­ni­stra­zio­ne avreb­be­ro ret­to la nuo­va Re­pub­bli­ca So­cia­le e co­sì i te­de­schi ap­pro­fit­ta­ro­no di que­sto vuo­to di po­te­re ita­lia­no per fa­re ra­strel­la­men­ti co­me quel­lo di Ro­ma. Ma dal 3O no­vem­bre 1943, è lo sta­to ita­lia­no, lo sta­to del­la Re­pub­bli­ca So­cia­le che, in pie­na au­to­no­mia, de­ci­de la per­se­cu­zio­ne. Co­sa si­gni­fi­ca? Si­gni­fi­ca che un or­di­ne di po­li­zia vie­ne emes­so e con que­sto de­cre­to tut­ti gli ebrei sul suo­lo de­vo­no es­se­re ar­re­sta­ti, in­ter­na­ti e tut­ti i lo­ro be­ni de­vo­no es­se­re se­que­stra­ti. Que­sto vuol di­re che dal 30 no­vem­bre i te­de­schi pos­so­no tran­quil­la­men­te pas­sa­re la ma­no agli ita­lia­ni per­ché sa­ran­no lo­ro a tro­var­li, ad ar­re­star­li, ad in­ter­nar­li. Non cer­to a de­por­tar­li per­ché la po­li­ti­ca ita­lia­na ha pur sem­pre una gran­de dif­fe­ren­za con quel­la te­de­sca, e che co­mun­que non è vol­ta al­lo ster­mi­nio. Ma tut­to il pri­mo pas­sag­gio vie­ne fat­to dal­la po­li­zia ita­lia­na.
Vo­le­vo ag­giun­ge­re an­co­ra qual­co­sa ri­spet­to al­la no­stra sto­ria, la sto­ria lo­ca­le. Cre­do che Fa­bio Le­vi ab­bia ben mes­so in ri­lie­vo che la po­li­ti­ca fa­sci­sta del­la le­gi­sla­zio­ne an­ti­e­brai­ca, che du­rò dal ’38 al ’43 ave­va pre­pa­ra­to sia gli ani­mi, sia una suc­ces­si­va po­li­ti­ca più for­te e per­se­cu­to­ria, che si mi­se in at­to dal ’43 al ’45. Non di­men­ti­chia­mo che in Ita­lia c’e­ra­no mi­glia­ia di ebrei stra­nie­ri, fug­gi­ti dal­la Ger­ma­nia, dal­la Ce­co­slo­vac­chia, dal­la Ro­ma­nia e dal­la Po­lo­nia per­ché pen­sa­va­no che da qui avreb­be­ro po­tu­to im­bar­car­si per gli Sta­ti Uni­ti o per la Pa­le­sti­na sot­to man­da­to bri­tan­ni­co. Que­ste mi­glia­ia di ebrei, che era­no in par­te clan­de­sti­ni, non co­no­sce­va­no la lin­gua, non co­no­sce­va­no i luo­ghi ed era­no stret­ta­men­te sor­ve­glia­ti dal­la po­li­zia ita­lia­na, era­no al­la mer­cé dei ra­strel­la­men­ti e del­le raz­zie. Vi fac­cio un so­lo esem­pio: due del­le di­ciot­to vit­ti­me del cam­po di avia­zio­ne di For­lì so­no i co­niu­gi Am­ster­dam o Am­ster­da­mer. Era­no ar­ri­va­ti nel 1940 dal­la Ro­ma­nia, era­no sce­si a Trie­ste per rag­giun­ge­re Ben­ga­si e di lì emi­gra­re in Pa­le­sti­na. A Ben­ga­si do­ve­va­no in­con­tra­re al­tri pro­fu­ghi, an­che lo­ro sce­si dal­l’Eu­ro­pa orien­ta­le, e lì for­ma­re una na­ve per ten­ta­re di for­za­re il bloc­co in­gle­se al lar­go del­la Pa­le­sti­na, co­sa dif­fi­ci­lis­si­ma al­lo­ra, per­ché la Pa­le­sti­na era sot­to man­da­to bri­tan­ni­co e que­sto im­pe­di­va agli ebrei per­se­gui­ta­ti e fug­gi­ti­vi di en­trar­vi; c’e­ra­no al lar­go le na­vi in­gle­si che fer­ma­va­no i pro­fu­ghi e li man­da­va­no in­die­tro. A Ben­ga­si que­sti pro­fu­ghi si riu­ni­ro­no ef­fet­ti­va­men­te, si im­bar­ca­ro­no, era­no più di tre­cen­to, ma non ten­ta­ro­no nean­che di for­za­re il bloc­co in­gle­se, quin­di co­min­cia­ro­no a va­ga­re per il Me­di­ter­ra­neo. Ri­tor­na­ro­no a Ben­ga­si do­ve tro­va­ro­no le au­to­ri­tà ita­lia­ne che li ac­col­se­ro con un re­gi­me po­li­zie­sco, nel sen­so che li in­ter­na­ro­no tut­ti e li man­da­ro­no in Ita­lia, nel cam­po di in­ter­na­men­to di Fer­ra­mon­ti di Tar­sia. E lì si fer­ma­ro­no, sot­to stret­ta sor­ve­glian­za po­li­zie­sca. Ora, si dà il ca­so che Fer­ra­mon­ti, vi­ci­no a Co­sen­za, sia sta­to uno dei pri­mi cam­pi di in­ter­na­men­to eu­ro­pei ad es­se­re li­be­ra­to dal­le ar­ma­te al­lea­te che ri­sa­li­va­no la pe­ni­so­la, nel­l’au­tun­no del 1943. Ma que­sti po­ve­ri co­niu­gi Am­ster­dam, da Fer­ra­mon­ti di Tar­sia, fu­ro­no tra­sfe­ri­ti più a nord, in in­ter­na­men­to a For­lì, dal­la po­li­zia ita­lia­na, e lì suc­ces­se quel che suc­ces­se, fu­ro­no due del­le di­ciot­to vit­ti­me del­l’ae­reo­por­to. Que­sto per di­mo­stra­re co­me que­sta stret­ta in­ter­di­pen­den­za tra po­li­zia ita­lia­na e po­li­zia te­de­sca non va as­so­lu­ta­men­te di­men­ti­ca­ta, e fu quel­la che pro­cu­rò al­la fi­ne i mag­gio­ri di­sa­stri per gli ebrei ita­lia­ni. Gra­zie.


Intervento di Gianni Sofri da un convegno del 1992

QUESTO CONVEGNO

Da Una città n. 11, marzo 1992

Qual­cu­no ha chie­sto, e non so se gli ab­bia­mo ri­spo­sto, per­ché tor­na la sva­sti­ca. E’ un ri­tor­no, in ef­fet­ti, preoccu­pante a tut­ti i li­vel­li. Ab­bia­mo let­to no­ti­zie in­quie­tan­ti sul pre­si­den­te del­la Croa­zia, sul­la Li­tua­nia… So­no emer­se co­se paz­ze­sche sul­la Li­tua­nia: voi sa­pe­te che mol­ti li­tua­ni co­min­cia­ro­no, du­ran­te la se­con­da guer­ra mon­dia­le, a lot­ta­re al fian­co dei na­zi­sti con­tro gli oc­cu­pan­ti so­vie­ti­ci, ma poi fi­ni­ro­no an­che per col­la­bo­ra­re nel­la per­se­cu­zio­ne de­gli ebrei. Su que­sto tri­ste epi­so­dio non c’è sta­ta per ora al­cu­na au­to­cri­ti­ca, an­zi!… In­som­ma, quan­do par­lia­mo di antise­mitismo og­gi non dob­bia­mo cre­de­re che si trat­ti so­lo dei na­zi­skin che ab­bia­mo vi­sto nel­la tra­smis­sio­ne di Giu­lia­no Fer­ra­ra. Og­gi l’an­ti­se­mi­ti­smo è for­te­men­te pre­sen­te in lar­ghe fa­sce gio­va­ni­li, ma non so­lo gio­va­ni­li,del­la Ger­ma­nia Orien­ta­le; è pre­sen­te in buo­na par­te dei pae­si del­l’Eu­ro­pa orien­ta­le, ben­ché i mi­lio­ni di ebrei che vi abi­ta­va­no pri­ma del­la Shoah sia­no so­lo ri­dot­ti a po­che de­ci­ne di mi­glia­ia; è pre­sen­te in al­cu­ne ten­den­ze, di­cia­mo co­sì per in­ten­der­ci, di de­stra, na­zio­na­li­ste e pan­rus­se, del­la Chie­sa or­to­dos­sa rus­sa, co­me Pa­m­jat. più vi­ci­no a noi, in Fran­cia e in Sviz­ze­ra, si vio­la­no tur­pe­men­te tom­be di ebrei. Esi­ste an­che un an­ti­se­mi­ti­smo di al­tro ti­po, di dif­fi­ci­le as­si­mi­la­zio­ne a quel­lo eu­ro­peo, nel mon­do ara­bo e mu­sul­ma­no (ma per il mo­men­to lo met­te­rei da par­te). Quin­di il fe­no­me­no del­l’an­ti­se­mi­ti­smo og­gi è un gros­so fe­no­me­no. Di­ce­vo pri­ma che l sto­ria non ri­sol­ve qua­si mai un pro­ble­ma una vol­ta per tut­te: lo ve­dia­mo og­gi con la ri­na­sci­ta dei na­zio­na­li­smi, del­le guer­re di re­li­gio­ne, ecc. Per­si­no ri­spet­to al­l’an­ti­se­mi­ti­smo, nep­pu­re un even­to spa­ven­to­so e in­di­ci­bi­le co­me lo ster­mi­nio è sta­to un vac­ci­no suf­fi­cien­te. Per lo me­no non per sem­pre. Vor­rei in­si­ste­re: di­cen­do che la sto­ria non ri­sol­ve i pro­ble­mi una vol­ta per tut­te, non pen­sa­vo a pic­co­li re­si­dui, più o me­no in­no­cui e fa­ci­li da con­trol­la­re. La ri­pre­sa odier­na del­l’an­ti­se­mi­ti­smo è un fe­no­me­no gros­so, che non va sot­to­va­lu­ta­to. Non si può ab­bas­sa­re la guar­dia.
Noi in Ita­lia ab­bia­mo avu­to de­gli epi­so­di, an­che mol­to brut­ti. Ci so­no ele­men­ti, non tan­to di an­ti­se­mi­ti­smo (co­me in al­cu­ni mo­vi­men­ti fran­ce­si), quan­to di raz­zi­smo più ge­ne­ra­le, nel­le le­ghe. So­prat­tut­to, ab­bia­mo una fet­ta di mon­do gio­va­ni­le che si agi­ta rie­su­man­do vec­chi slo­gan e fa­cen­do pro­pria una cul­tu­ra quan­to me­no am­bi­gua e in­con­si­sten­te, una pseu­do-cul­tu­ra. Ora, co­me com­por­tar­si ri­spet­to a que­ste co­se? Que­sto è un pro­ble­ma po­li­ti­co, ma an­che cul­tu­ra­le, mol­to im­por­tan­te. Io cre­do che una pri­ma co­sa da di­re sia que­sta: che bi­so­gna sem­pre guar­dar­si dal­l’as­si­mi­la­re il pre­sente al pas­sa­to. O me­glio. E’ ve­ro che esi­ste una con­ti­nui­tà nel­la sto­ria del raz­zi­smo su ba­se “scien­ti­fi­ca” (par­lo di que­sto, per­ché al­tri­men­ti, se per raz­zi­smo in­ten­dia­mo ogni for­ma di et­no­cen­tri­smo, al­lo­ra non fi­nia­mo più, cioè si par­te dal­la pre­i­sto­ria, dal­le so­cie­tà pri­mi­ti­ve, ecc.). Quin­di c’è una con­ti­nui­tà che va te­nu­ta pre­sen­te: per esem­pio, non è un ca­so che i na­zi­skin pos­sa­no ave­re tra le ma­ni una co­pia del Mein Kam­pf. E pe­rò sa­reb­be mol­to sba­glia­to da par­te no­stra pri­vi­le­gia­re l’e­le­men­to del­la con­ti­nui­tà an­zi­ché sfor­zar­ci, con tut­te le no­stre for­ze, di ve­de­re lo spe­ci­fi­co che di vol­ta in vol­ta si pre­sen­ta nel fe­no­me­no. E al­lo­ra -ma qui non è cer­to il mo­men­to né il luo­go per far­lo, e io non ne sa­rei in gra­do, per­ché ci vor­reb­be il con­tri­bu­to di ana­li­sti del mon­do gio­va­ni­le, di so­cio­lo­gi, di psi­co­lo­gi, di pe­da­go­gi­sti e stu­dio­si del­la po­li­ti­ca-, al­lo­ra, di­ce­vo, la mia sen­sa­zio­ne è che, mol­to spes­so, an­che l’u­so di te­si al­la Fau­ris­son sul­la non-esi­sten­za dei cam­pi di ster­mi­nio, l’u­so di vec­chi te­sti, di vec­chie sim­bo­lo­gie, ecc., si col­le­ghi­no in un amal­ga­ma as­sai con­fu­so, che non è im­me­dia­ta­men­te (e sem­pli­ce­men­te) ri­con­du­ci­bi­le al na­zi­smo.
E pe­rò, det­to que­sto, uno sa­reb­be ten­ta­to di con­clu­de­re: “ma al­lo­ra dob­bia­mo la­sciar­li fa­re?”. E’ un pro­ble­ma mol­to in­quie­tan­te.
Ri­spet­to al la­sciar­li fa­re, se è ve­ro che la sto­ria qual­che co­sa in­se­gna (non che sia ma­gi­stra vi­tae, per ca­ri­tà!, non ci cre­de più nes­su­no, ma se in­se­gna qual­co­sa), al­lo­ra, nei pri­mi an­ni Ven­ti, Hi­tler era uno dei tan­ti, ce n’e­ra­no tan­ti nel­la Ger­ma­nia di al­lo­ra, e non tut­ti im­bian­chi­ni, cioè fa­ce­va­no an­che al­tri me­stie­ri…, che an­da­va­no in gi­ro di­cen­do che pri­ma o poi gli ebrei an­da­va­no ster­mi­na­ti. Se qual­cu­no li aves­se fer­ma­ti, se qual­cu­no li aves­se man­da­ti da un buon psi­chia­tra (e ce n’e­ra­no, so­prat­tut­to in Ger­ma­nia, di ec­cel­len­ti), for­se le co­se avreb­be­ro pre­so un’al­tra pie­ga. Per ca­ri­tà, la sto­ria non è mai, lo sap­pia­mo, so­lo ope­ra di sin­go­li in­di­vi­dui. La sto­ria esi­ge che si muo­va­no for­ze pro­fon­de, strut­tu­re, ec­ce­te­ra. Pe­rò se in­tan­to si fer­mas­se­ro in qual­che mo­do i sin­go­li in­di­vi­dui, sa­reb­be un buon ri­sul­ta­to: non suf­fi­cien­te da so­lo, cer­to, ma qual­co­sa sì. Vo­glio di­re che a vol­te, nel­la sto­rio­gra­fia, bi­so­gne­reb­be re­cu­pe­ra­re il na­so di Cleo­pa­tra. Voi sa­pe­te che Cro­ce ave­va -e giu­sta­men­te- at­tac­ca­to que­sta for­ma di sto­rio­gra­fia, che lui ac­cu­sa­va di es­se­re quel­la del “na­so di Cleo­pa­tra” ap­pun­to: una sto­rio­gra­fia se­con­do cui i rap­por­ti tra Ro­ma­ni, Egi­zia­ni e in ge­ne­re le co­se che ac­cad­de­ro al­lo­ra nel Me­di­ter­ra­neo avreb­be­ro pre­so una cer­ta pie­ga per­ché Cleo­pa­tra ave­va un na­si­no al­l’in­sù par­ti­co­lar­men­te af­fa­sci­nan­te, in gra­do di con­qui­sta­re al­cu­ni im­por­tan­ti lea­der po­li­ti­ci ro­ma­ni. Cro­ce, na­tu­ral­men­te, iro­niz­za­va su que­sto, e di­ce­va: no, le strut­tu­re pro­fon­de, lo Spi­ri­to del­la Sto­ria, l’I­dea, ecc. (al­tri avreb­be­ro det­to i rap­porti di pro­du­zio­ne) fan­no la sto­ria. In real­tà, a vol­te, la sto­ria è fat­ta dav­ve­ro an­che di coin­ci­den­ze, di cir­co­stan­ze ba­nali, e cre­do che noi lo stia­mo pro­prio ri­sco­pren­do in que­sto pe­rio­do: al­tri­men­ti nes­su­no ca­pi­reb­be, per esem­pio, gran par­te del­la po­li­ti­ca ita­lia­na del­l’ul­ti­mo an­no, nel­la qua­le è dif­fi­ci­le ve­de­re strut­tu­re pro­fon­de, men­tre c’è un gran fio­ri­re di na­si di Cleo­pa­tra… Na­tu­ral­men­te, si po­treb­be di­scu­te­re se que­sto sia Sto­ria, ma tan­t’è…
Ven­go al­l’ul­ti­mo pun­to, che vuo­le es­se­re an­che da par­te mia un sa­lu­to e un rin­gra­zia­men­to a voi tut­ti. Io non so se gli or­ga­niz­za­to­ri, …​Massimo Te­sei, per esem­pio, avreb­be vo­lu­to ma­ga­ri dei ri­sul­ta­ti mag­gio­ri.
Io de­vo di­re che per­sonalmente ho tro­va­to mol­to in­te­res­san­te que­sta se­ra­ta, ho tro­va­to in­te­res­san­te l’i­ni­zia­ti­va in sé (mi so­no an­che fat­to rac­con­ta­re co­me so­no an­da­te le co­se, le pun­ta­te pre­ce­den­ti, di sta­mat­ti­na e del po­me­rig­gio). Io non cre­do che in una si­tuazione del ge­ne­re po­tes­se­ro emer­ge­re né una se­rie di im­por­tan­ti ri­ve­la­zio­ni sto­ri­che im­prov­vi­sa­men­te fer­men­ta­te al­l’in­ter­no di una sa­la del Co­mu­ne di For­lì, né una so­lu­zio­ne di pro­ble­mi qua­li quel­lo del no­stro rap­por­to col razzi­smo, per dir­ne uno. Tut­ta­via, di pro­ble­mi, ne ab­bia­mo mes­si a fuo­co tan­ti, che chia­ra­men­te non si po­treb­be­ro mai ri­solvere in una se­ra­ta, in un grup­po vo­len­te­ro­so di per­so­ne, quan­do so­no pro­ble­mi che in­ve­ce im­pe­gna­no al lo­ro mas­simo la no­stra cul­tu­ra e al­tre cul­tu­re da al­cu­ni de­cen­ni.
Io tro­vo che in­ve­ce sia sta­to mol­to po­si­ti­vo da tut­ti e due i pun­ti di vi­sta sia di aver pre­sen­ta­to in ma­nie­ra non acca­demica quel­lo che avreb­be po­tu­to es­se­re un ti­pi­co pro­dot­to ac­ca­de­mi­co, e cioè i ri­sul­ta­ti di una ri­cer­ca. Ri­sul­ta­ti non fred­di (co­me spes­so è nel­le ri­cer­che ac­ca­de­mi­che), ma, co­me ho cer­ca­to di di­re pri­ma nel­la mia bre­ve in­tro­du­zio­ne, pal­pi­tan­ti di vi­ta e per que­sto com­mo­ven­ti, coin­vol­gen­ti, an­che per per­so­ne, co­me mol­ti di noi qui den­tro, che non so­no stu­dio­si, ma che ama­no, e vo­glio­no, ri­cor­da­re. Quin­di cre­do che que­sto sia sta­to im­por­tan­te, ed è un pri­mo pun­to.
Men­tre il se­con­do pun­to im­por­tan­te cre­do sia sta­to sem­pli­ce­men­te que­sto: che un nu­me­ro ele­va­to di per­so­ne, con­si­de­ran­do le tre vol­te in cui ci si è ra­du­na­ti a di­scor­re­re, sta­mat­ti­na, que­sto po­me­rig­gio e sta­se­ra, sia sta­to in­vi­ta­to a ri­pen­sa­re a dei pro­ble­mi che for­se mol­ti di noi ri­te­ne­va­no, a tor­to, già chia­ri e de­fi­ni­ti. Io so­no, ov­via­men­te, d’ac­cor­do con la Si­gno­ra che pri­ma di­ce­va: “Noi sap­pia­mo che i cam­pi di con­cen­tra­men­to, i cam­pi di ster­mi­nio ci so­no sta­ti”. Non c’è bi­so­gno di di­scu­te­re di que­sto. Pe­rò ci so­no an­co­ra tan­te co­se che dob­bia­mo ca­pi­re, e che riguar­dano il pas­sa­to, ma che ri­guar­da­no an­che noi, o per lo me­no i no­stri fi­gli, se noi stes­si non ci sen­tia­mo più in gra­do di fa­re pro­get­ti per il no­stro fu­tu­ro. Ec­co, da que­sto pun­to di vi­sta, non so voi di For­lì, che for­se pun­ta­te mol­to in al­to… Noi che abi­tia­mo in cit­tà lie­ve­men­te più gran­di sia­mo di­ven­ta­ti for­se più stan­chi e scet­ti­ci, e ci con­ten­tia­mo più fa­cil­men­te.
Io, di que­sta se­ra­ta, sa­rei mol­to con­ten­to.



Da Una città n. 16, ottobre 1992

TORNANO I NOMI
IL DOVERE DELLA MEMORIA

S’è svol­ta al ci­mi­te­ro mo­nu­men­ta­le di For­lì la ce­ri­mo­nia di sco­pri­men­to del­la la­pi­de sul­la tom­ba degli ebrei ca­du­ti nel ’44. E’ sta­ta una bel­la ce­ri­mo­nia. Aper­ta dal­le pa­ro­le di am­men­da del­l’as­ses­so­re Zel­li, a ri­pa­ra­zio­ne del­la di­men­ti­can­za del­la cit­tà, cui so­no se­gui­te quel­le del Sin­da­co Se­dio­li, del Rab­bi­no Ca­ro, del vi­ce­pre­si­den­te del­la Co­mu­nità Ebrai­ca di Fer­ra­ra, Bon­fi­glio­li, e di Tul­lia Ze­vi. Tut­ti han­no mes­so in ri­sal­to l’at­tua­li­tà e l’im­por­tan­za del ri­cor­do in un mo­men­to in cui, nel­l’Eu­ro­pa di og­gi, si ten­ta da più par­ti di ri­muo­ve­re, ad­di­rit­tu­ra di ne­ga­re, ciò che suc­ces­se ie­ri. Un’Eu­ro­pa do­ve, dal­le pro­fana­zio­ni del­le tom­be ebrai­che e da­gli at­tac­chi agli ostel­li per ex­tra­co­mu­ni­ta­ri, si è ar­riva­ti al­la pro­gram­ma­zio­ne del­la de­por­ta­zio­ne de­gli zin­ga­ri. E que­sto nel­l’in­dif­fe­ren­za, nel­l’i­gna­via, o nel­l’in­cre­du­li­tà di tan­ti di noi.
Ri­tro­var­si at­tor­no a quel­la pie­tra in­sie­me a co­lo­ro che so­prav­vis­se­ro a quel pas­sa­to è sta­to bel­lo e im­por­tan­te. An­che per con­ti­nua­re un im­pe­gno che per noi re­sta pun­to d’o­no­re.

L’in­ter­ven­to di Tul­lia Ze­vi, Pre­si­den­te del­le Co­mu­ni­tà Israe­li­ti­che Ita­lia­ne
Si­gnor pre­fet­to, si­gnor sin­da­co, si­gnor rab­bi­no, ca­ri ami­ci, ca­ri com­pa­gni e, se mi per­met­te­te, ca­ri fra­tel­li e so­rel­le, per­chè pen­so che il fat­to di es­se­re qui riu­ni­ti in que­sta pia, straor­di­na­ria e no­bi­le ce­ri­mo­nia fa di noi tut­ti fra­tel­li e so­rel­le. De­vo espri­me­re, an­che a no­me di tut­te le co­mu­ni­tà ebrai­che ita­lia­ne, il pro­fon­dis­si­mo ap­prez­za­men­to e la gra­ti­tu­di­ne per que­sta de­ci­sio­ne del Co­mu­ne di For­lì di da­re se­pol­tu­ra, an­che se a 50 an­ni di di­stan­za, a que­ste vit­ti­me del na­zi­fa­sci­smo. Vo­glio espri­me­re gra­ti­tu­di­ne a quel­la suo­ra che, mal­gra­do il suo stes­so ve­sco­vo la scon­si­glias­se, eb­be il co­rag­gio di an­da­re a ri­co­no­sce­re quel­le po­ve­re sal­me e que­sta fu la pre­pa­ra­zio­ne al­l’o­no­ra­ta se­pol­tu­ra che ri­ce­vo­no og­gi; e al­la dot­to­res­sa Sa­ia­ni che, con pa­zien­za e in­tel­li­gen­za, ha fat­to tut­te le ri­cer­che e get­ta­to lu­ce su un pas­sa­to che ri­ma­ne­va pie­no di om­bre.
Mi pa­re che que­sta ce­ri­mo­nia sia ca­ri­ca di si­gni­fi­ca­ti sim­bo­li­ci, per­chè que­sto è un mo­nu­men­to al­la me­mo­ria, al do­ve­re del­la me­mo­ria, è un mo­ni­to a non di­men­ti­ca­re. Og­gi al­cu­ni, trop­pi mo­vi­men­ti e in­di­vi­dui si sfor­za­no di can­cel­la­re, di di­strug­ge­re, di ne­ga­re la me­mo­ria. E’ sta­to det­to che chi di­men­ti­ca il pro­prio pas­sa­to è con­dan­na­to a ri­vi­ver­lo. Per que­sto è im­por­tan­te ri­cor­da­re, per­chè i se­gna­li di una pos­si­bi­li­tà di ri­vi­ve­re que­sto pas­sa­to che non vuo­le pas­sa­re so­no mol­ti e mi­nac­cio­si. Pro­prio la not­te scor­sa, an­ni­ver­sa­rio del­la riu­ni­fi­ca­zio­ne te­de­sca, so­no sta­ti com­piu­ti ol­trag­gi con­tro ci­mi­te­ri ebrai­ci. Nel so­lo 1991 in Ger­ma­nia so­no sta­ti pro­fa­na­ti 84 ci­mi­te­ri ebrai­ci, e de­vo di­re che que­ste dis­sa­cra­zio­ni e or­ro­ri non han­no ri­spar­mia­to la Fran­cia e han­no sfio­ra­to l’I­ta­lia.
L’Eu­ro­pa è per­cor­sa, mi­nac­cia­ta da fre­mi­ti di na­zio­na­li­smi esa­spe­ra­ti, di xe­no­fo­bia vio­len­ta, di an­ti­se­mi­ti­smo. Le ra­di­ci so­no di­ver­se, ma so­no con­co­mi­tan­ti nel­la mi­nac­cia al­la de­mo­cra­zia in Eu­ro­pa. Che co­sa si­gni­fi­ca og­gi la xe­no­fo­bia, spe­cial­men­te ri­vol­ta con­tro gli ex­tra­co­mu­ni­ta­ri? E’ la pau­ra del di­ver­so, è il con­ti­nen­te che ha co­no­sciu­to il be­nes­se­re, ma che dà se­gni di cri­si e at­tra­ver­sa di­sa­gi for­tis­si­mi, e si sen­te mi­nac­cia­to nel­la pro­pria si­cu­rez­za e nel pro­prio be­nes­se­re. L’an­ti­se­mi­ti­smo ha ra­di­ci di­ver­se, ma pra­ti­ca­men­te si as­som­ma al­la xe­no­fo­bia e al raz­zi­smo. (…)
Con que­sta ce­ri­mo­nia noi sim­bo­leg­gia­mo co­lo­ro che han­no il do­ve­re di ri­cor­da­re. In que­sto ci­mi­te­ro, gli uni vi­ci­ni agli al­tri, ci so­no ebrei, atei, cat­to­li­ci. (…) Si­gni­fi­ca che dob­bia­mo sta­re in­sie­me, es­se­re uni­ti, dia­lo­ga­re ed ope­ra­re per il be­ne co­mu­ne. Al­le no­stre por­te, l’ha ri­cor­da­to il si­gnor sin­da­co, stan­no av­ve­nen­do co­se atro­ci. Ab­bia­mo vi­sto fo­to­gra­fie che pen­sa­va­mo non fos­se­ro pos­si­bi­li in que­st’Eu­ro­pa che si con­si­de­ra ci­vi­lis­si­ma, ahi­mè.
Que­sta no­stra pre­sen­za qui og­gi mi pa­re che sia sim­bo­li­ca del do­ve­re di ri­cor­da­re e di la­vo­ra­re in­sie­me per­ché gli or­ro­ri che han­no per­cor­so l’Eu­ro­pa 50 an­ni fa non so­lo non ven­ga­no di­men­ti­ca­ti, ma non deb­ba­no ri­pe­ter­si.
Tul­lia Ze­vi

L’in­ter­ven­to di don Ser­gio Sa­la
L’e­pi­gra­fe che fi­nal­men­te ci si è de­ci­si a por­re per tut­ti que­gli Ebrei fu­ci­la­ti an­che a For­lì, è una me­mo­ria che fa ri­tro­va­re la no­stra stes­sa iden­ti­tà. Non è un do­ve­re ri­cor­da­re; è an­che l’in­di­spen­sa­bi­le cam­mi­no da com­pie­re per non per­de­re an­che noi stes­si. Or­mai sia­mo sta­ti tut­ti se­gna­ti da quel­lo ster­mi­nio e non ba­sta il tra­scor­re­re del tem­po o la na­tu­ra­le vo­glia di vi­ve­re e nem­me­no i nuo­vi gran­di pro­ble­mi del mon­do per di­men­ti­ca­re e pas­sa­re ol­tre. Gli Ebrei so­prav­vis­su­ti non so­no sta­ti ab­ban­do­na­ti dal­l’an­go­scia, che spes­so an­zi li ha tra­vol­ti nel sui­ci­dio di un’e­si­sten­za im­pos­si­bi­le; ma an­che per noi sal­va­ti, il ri­cor­do che con­ti­nua­men­te ri­tor­na è la ri­pre­sa del­la no­stra sto­ria, an­che in­di­vi­dua­le: di ciò che amia­mo. Fe­del­men­te, per­ché con­vin­ti, non emo­zio­na­ti sol­tan­to.
E l’e­pi­gra­fe, che fa tor­na­re i No­mi pro­pri, ci fa com­pren­de­re me­glio che ap­pun­to co­sì van­no ri­cor­da­ti: in­di­vi­dual­men­te, co­me sin­go­li; con il lo­ro vol­to, di­reb­be Le­vi­nas. Cer­ta­men­te, die­tro cia­scu­no di lo­ro c’è il “pro­ble­ma ebrai­co”, la sto­ria com­ples­si­va dei po­po­li, lo scon­tro del­le cul­tu­re e del­le vi­sio­ni del mon­do; ed è ap­pun­to que­sto che li ha uc­ci­si. Ma è cia­scu­no di lo­ro che con­ta: ba­sta uno so­lo. An­che -so­prat­tut­to- quan­do il cor­po non è sta­to nem­me­no iden­ti­fi­ca­to. An­che quan­do è in­di­ca­to da una sem­pli­ce si­gla K.Z…. Nem­me­no il nu­me­ro enor­me, “ster­mi­na­to”, dei 6 mi­lio­ni può oscu­ra­re nel­la quan­ti­tà il si­gni­fi­ca­to di cia­scu­no di lo­ro: l’uo­mo, co­me Dio, non fa nu­me­ro. Co­me di­ce­va la prof. Fag­giot­to nel con­ve­gno di feb­bra­io qui a For­lì, que­sta ri­cer­ca per­so­na­le va in sen­so pre­ci­sa­men­te con­tra­rio al ten­ta­ti­vo del­l’o­dio na­zi­sta di sop­pres­sio­ne as­so­lu­ta; e ap­pun­to con l’e­pi­gra­fe ri­pren­dia­mo il con­tat­to per­so­na­le con cia­scu­no di lo­ro: tor­na­no i No­mi. Ognu­no -im­mor­ta­le e in­so­sti­tui­bi­le- si ag­giun­ge ai no­mi più no­ti di An­na Frank, Da­niel­le, Et­ty Hil­le­sum… Ri­leg­gen­do que­sti dei fu­ci­la­ti di For­lì si sen­to­no ri­suo­na­re le pro­mes­se non man­te­nu­te di Dio: Sa­ra, “la prin­ci­pes­sa”; Israel, “Dio si mo­stri for­te”; Le­vi, “Dio si le­ghe­rà”. E i no­mi di fa­mi­glia che in­ve­ce ri­cor­da­no le fol­li per­ver­sio­ni del­l’uo­mo che li ha se­gre­ga­ti nei ghet­ti del­le cit­tà: Am­ster­dam, Mor­pur­go… Ogni lo­ro No­me è co­sì ca­ri­co di sto­ria e pro­mes­se. Per que­sto, cre­do che so­lo la bio­gra­fia, il dia­rio, le let­te­re sia­no il lin­guag­gio più ri­spet­to­so e ap­pro­pria­to per que­sta me­mo­ria. Im­pe­di­sco­no il ge­ne­ra­le astrat­to e co­strin­go­no al­le esi­sten­ze con­cre­te. Pre­mu­ni­sco­no vi­sce­ral­men­te dal con­teg­gio fal­so del­la let­te­ra­tu­ra re­vi­sio­ni­sta e ri­ve­la­no, co­me lo yd­dish di Sin­ger, la lin­gua del­l’e­si­lio, la sto­ria ve­ra del­la gen­te po­ve­ra e smar­ri­ta. Ma che pro­prio co­sì ci giu­di­ca. Uno di lo­ro, nel ghet­to di Var­sa­via, ha la­scia­to scrit­to: “Ciò che non po­te­va­mo gri­da­re in fac­cia al mon­do, l’ab­bia­mo na­sco­sto sot­to­ter­ra…”. Noi ora a For­lì sen­tia­mo quel gri­do. Non si im­pa­ra la Shoah sui li­bri, ma leg­gen­do quei No­mi del­l’e­pi­gra­fe mol­ti pen­se­ran­no ai sin­to­mi in­quie­tan­ti del no­stro tem­po; co­me giu­sta­men­te è sta­to det­to che “quan­ti non ri­cor­da­no il pas­sa­to so­no con­dan­na­ti a ri­vi­ver­ne in fu­tu­ro gli or­ro­ri”. Per mol­to me­no di Ro­stock in pas­sa­to av­ve­ni­va­no i po­grom. Il ma­le esi­ste, mi­nac­cio­so e po­ten­te; ma tut­to di­pen­de pur sem­pre dal­la no­stra li­ber­tà e dal co­rag­gio di gio­car­si. Quei No­mi del­l’e­pi­gra­fe non pro­vo­ca­no uno ste­ri­le com­ples­so di col­pa (an­che se tut­ti in qual­che mo­do ne sia­mo re­spon­sa­bi­li) ma som­muo­vo­no la co­scien­za eti­ca re­spon­sa­bi­le e at­ti­va, che ci im­pe­di­sce -co­me in­ve­ce è sta­to nel ’33- di sta­re a guar­da­re. E al­lo­ra, il 2 no­vem­bre è vi­ci­no, co­me far co­no­sce­re quel­l’e­pi­gra­fe ai no­stri con­cit­ta­di­ni? La scuo­la è ap­pe­na ini­zia­ta: co­me in­se­gna­re sto­ria a chi non sa? Nel­l’at­tua­le cri­si del­la po­li­ti­ca co­me ri­cor­da­re il con­tri­bu­to de­gli Ebrei al­la sto­ria del­la no­stra Li­be­ra­zio­ne?