Solo nel ‘94, grazie all’impegno di alcuni cittadini, le vittime delle stragi dell’aeroporto trovarono degna sepoltura e la città di Forlì ricordò finalmente la strage.
Di seguito, interventi da un convegno tenutosi a Forlì nel 1991 e gli interventi alla cerimonia di scoprimento della lapide sulla tomba degli ebrei caduti nel ’44.
da Una città n. 13, maggio 1992
PAGINE PER PAGINE,
PERSONE PER PERSONE,
BAMBINI PER BAMBINI
Iniziamo la pubblicazione dei principali interventi della “giornata di ricordo, riparazione e riflessione”, che nel mese di febbraio abbiamo organizzato in collaborazione con l’Associazione di Amicizia Ebraico-Cristiana di Forlì, l’Istituto Storico della Resistenza e l’Associazione Italia-Israele di Cesena, a ricordo delle donne e uomini ebrei caduti a Forlì negli eccidi del settembre ’44.
Liliana Picciotto Fargion lavora al centro di Documentazione Ebraico di Milano ed è autrice de “Il libro della memoria”, l’elenco di tutti gli Ebrei deportati dall’Italia nel 43-45. Gianni Sofri è docente di Storia all’Università di Bologna. Nei prossimi numeri pubblicheremo altri interventi, fra cui quello di Enrico Deaglio e Fabio Levi, sulle leggi razziali e le responsabilità italiane nella persecuzione antisemita.
L’intervento di Liliana Picciotto Fargion
Vorrei innanzi tutto ringraziare gli organizzatori di questa manifestazione e l’università che ci ha ospitato, per averci dato la possibilità di incontrare il pubblico di Forlì. Io lavoro come ricercatrice presso un centro studi di Milano che da parecchi anni si è posto come finalità quella di cercare di ricostruire l’ambiente e i nomi delle persone arrestate e scomparse in Italia durante l’occupazione tedesca e la Repubblica Sociale Italiana, tra il ’43 e il ’45. Questo lavoro fu iniziato da uno storico francese, Serge Karlfeld che negli anni ‘7O si mise in testa di ricostruire l’elenco esatto degli ebrei che, dalla Francia, erano scomparsi nel nulla. Si parlava di centomila persone di cui non si avevano più tracce ma non c’era nessun lavoro organico che ricostruisse il loro destino. Ricerche di questo genere furono fatte in seguito anche in Belgio, in Olanda, in Germania, per la parte ex-federale, ed ora è stata conclusa anche in Italia. In questo lavoro ho speso tredici anni della mia vita, ma era un lavoro che era già iniziato ben prima di me. La finalità principale -che ne è anche una lettura un po’ morale- è quella di restituire un volto, una personalità, una dignità a persone che erano destinate a scomparire nel nulla. La ricerca va quindi nell’esatto senso contrario a quello inteso dalle finalità naziste.
Che cosa avevano in testa i nazisti per gli ebrei d’Europa? Dal I941 in poi, avevano in testa di eliminarli completamente, non solo fisicamente, ma eliminarne anche il ricordo, la memoria, la cultura, i beni, le possibilità di generare figli. Il procedimento che venne loro applicato fu studiato e portato a termine scientificamente. Questa gigantesca impresa, che i nazisti chiamavano la “soluzione finale” del problema ebraico, iniziò appunto nel 1941 ed ebbe conclusione solamente con la liberazione dell’Europa nel 1945. Nel frattempo la maggior parte della comunità ebraica europea fu distrutta.
L’Europa era il luogo più popoloso di comunità ebraiche; c’era una Polonia popolosissima di ebrei, si parla di tre milioni di persone; la Russia invasa dalle armate tedesche era piena di ebrei e quando dico ebrei, intendo tutta la loro cultura, il loro modo di pensare, di agire, il loro modo di rapportarsi alla società, di leggere i libri, di leggere la loro tradizione e di prospettare un loro futuro. Tutto venne distrutto. La Polonia di oggi non ha più nessuna memoria ebraica; era un paese che aveva tre milioni di ebrei e oggi ne ha tre, quattromila. Sono rimaste pochissime tracce; in quel luogo, oggi, si parla ormai di archeologia.
Quando i nazisti occuparono l’Italia, nel 1943, dopo l’8 settembre, misero in pratica quello che negli altri paesi occupati era già stato pienamente avviato. Nel resto dell’Europa il progetto di sterminio era già in pieno svolgimento. Ci furono varie fasi.
Si iniziò nel 1941, con le fucilazioni in massa di interi villaggi ebraici nella Russia sovietica. Le armate tedesche che avanzavano per invadere l’Unione Sovietica avevano alle spalle uno speciale distaccamento, le “einsatzgruppen”, gruppo di assalto speciale, formato da fucilieri di professione, addestrato alle fucilazioni. Ogni volta che arrivavano in un villaggio, facevano il censimento e separavano gli ebrei dal resto della popolazione. Dovete immaginare che era una popolazione assolutamente rurale, molto semplice, nessuno era in grado di elaborare, di capire, di orientarsi bene su che cosa stesse succedendo; stiamo parlando di piccoli villaggi dello shtedtl dell’Unione Sovietica. Quindi anche la domanda oziosa che mi viene posta certe volte: perché non si ribellavano? Non si ribellavano perché nessuno aveva capito che cosa stesse succedendo, questa è la verità. Queste “einsatzgruppen” fecero un enorme bagno di sangue di più di un milione di persone nel giro di un anno e questa è materia documentata; tutti i tentativi dei revisionisti, di questi storici cosiddetti revisionisti, che osano negare la realtà dei fatti, sono assolutamente una menzogna pretestuosa: rimangono le relazioni che i capi delle “einsatzgruppen” ogni sera mandavano a Berlino sulla quantità di gente che erano riusciti ad uccidere in quel giorno; ci sono dei filmati, ci sono delle fotografie. Dopo questa prima fase della cosiddetta soluzione finale, una fase, per così dire, selvaggia, ce ne fu una seconda più pensata, più politicamente mirata, e fu la fase della “ghettizzazione”, della riunione dentro i ghetti degli ebrei di tutti i paesi dell’Europa dell’est. Il procedimento era questo: si riunivano progressivamente le persone all’interno di zone separate della città che avevano delle mura, dalle quali non potevano né entrare né uscire, se non sotto sorveglianza tedesca; i tedeschi, dall’esterno, avevano nelle mani la gestione del vettovagliamento generale, sicché potevano con grande agio affamare e debilitare la popolazione interna. Nel giro di sei mesi, nel ’42, ’43, migliaia di persone si ritrovarono, all’interno di questi ghetti – il più famoso dei quali, per la grande rivolta che vi ebbe luogo, fu il ghetto di Varsavia – a vivere in contiguità, in promiscuità assolute; si parla di quindici persone in una sola stanza. Queste persone erano debilitate anche psicologicamente. Ad un certo punto venne messa in atto la deportazione dei ghetti verso delle strutture di sterminio appositamente create. Ogni ghetto aveva nelle vicinanze, tra i trenta e i quaranta chilometri di distanza, un cosiddetto campo della morte, di cui quasi nessuno conosce l’esistenza. Sono nomi che non ci sono noti, nomi polacchi e russi, provo a dirne qualcuno: Treblinka, Maidanek, Chelmno, Sobibor; erano campi di sterminio, in pratica dei mattatoi. Per esempio, dal ghetto di Varsavia, al mattino, venivano caricati dei treni, venivano date delle pagnotte alle persone, veniva loro detto che li si portava fuori per farli lavorare, venivano portati a Treblinka e lì veniva data loro la morte immediatamente tramite delle rudimentali camere a gas. Questo succedeva ogni mattina. Al pomeriggio i treni ritornavano vuoti delle persone. Questo andò avanti per sei-sette mesi, fino a quando i giovani del ghetto di Varsavia non cominciarono a pensare che qualcosa non andava, non era possibile che tanta gente andasse a lavorare al mattino e non ritornasse la sera. Quello fu proprio l’inizio della decisione della rivolta. Questi campi della morte entrarono in funzione per circa un anno, un anno e mezzo, coprirono la fine del 1941 e tutto il 1942. Erano strutture molto rudimentali, non erano state studiate bene: le camere a gas non erano abbastanza grandi, qualche volte la morte non sopravveniva in fretta, non si sapeva cosa fare dei cadaveri, così ci furono varie riunioni nelle centrali berlinesi della polizia, nei vari ministeri degli interni, per pensare ad un metodo che fosse più efficace, soprattutto nella previsione della deportazione e dello sterminio degli ebrei anche dell’Europa occidentale.
Dai responsabili dei ministeri tedeschi dopo questa conferenza di Grosser Wannsee, che ebbe luogo il 2O gennaio del I942, fu deciso che tutti gli ebrei d’Europa, i sopravvissuti ai bagni di sangue della Russia, della Polonia, e anche quelli dell’Europa occidentale, dovessero finire in un unico luogo.
Fu scelto Auschwitz, in Alta Slesia, un territorio polacco protetto rispetto agli alleati che intanto stavano combattendo contro la Germania (dalla Polonia difficilmente trapelavano le notizie). Questo campo funzionava già, per i prigionieri di guerra sovietici e come campo di punizione per i polacchi antinazisti. In una parte di questo campo, chiamata Bir-kenau, a qualche chilometro di distanza, nel circondario, fu creato un gigantesco luogo dotato di tutti i moderni sistemi per dare la morte. Questo nuovo campo si chiamò Auschwitz-Birkenau. Lì furono costruiti, con grandissima rapidità, dei nuovi impianti che consistevano in giganteschi saloni -chiamiamoli così- che servivano per “gasare” le persone; avevano le porte stagne, era stato studiato tutto il sistema di aerazione. Quindi non sono responsabili solo coloro che ordinarono di fare questo campo: ci furono schiere di ingegneri che studiarono le strutture per lo sterminio, ci fu l’azienda che le costruì. Queste camere a gas potevano uccidere qualche migliaio di persone in una sola volta, dopodiché i corpi venivano cremati da degli addetti. Arrivavano ad Auschwitz-Birkenau giornalmente decine di treni da tutta Europa; le persone venivano arrestate nei loro luoghi di residenza, dalla polizia tedesca o, in certi casi, dalla polizia locale.
E così veniamo all’Italia.
Chi fu che arrestò queste persone? Chi riuscì a trovarle, a rintracciarle? Perché anche questo è un problema. Perché, mentre nell’Europa dell’Est gli ebrei hanno una cultura particolare, una lingua particolare, che è l’yiddish, qualche volta si vestono anche in maniera particolare, hanno queste barbe, sono facilmente riconoscibili -lo erano perlomeno quando ce n’erano-, nell’Europa occidentale c’era una grandissima integrazione, anche a livello di costumi e di cultura, per cui un ebreo che passava per la strada non era assolutamente riconoscibile. Per questo motivo, in tutti i paesi occupati, i nazisti si preoccuparono di avere degli alleati. La polizia tedesca non era assolutamente sufficiente per rintracciare tutte le persone che dovevano essere arrestate, portarle in un campo di internamento e di transito e, quando il loro numero era sufficiente, mandarle ad Auschwitz-Birkenau. Sicché, anche in Italia, la polizia tedesca dovette giocoforza appoggiarsi alla polizia italiana.
Questo lavoro, il recupero di queste persone, di queste personalità, è, prima di tutto, un lavoro di tipo morale, ha una valenza morale prima ancora che storiografica: quella di riuscire a ritrovare i nomi di tutti coloro che erano destinati a scomparire nel nulla. E’ quindi un lavoro che va nel senso contrario a quello desiderato dai nazisti, è un lavoro antinazista per eccellenza. E’ inoltre per noi un richiamo alla nostra coscienza, alla nostra memoria e alla loro memoria.
Questo lavoro è stato fatto per tredici lunghi anni, per arrivare a queste settecento pagine, che sono pagine ossessive, dolenti, che contengono questo elenco forse un po’ ripetitivo, ma si è voluto farlo ripetitivo, ossessionante, ossessivo, cosicché il lettore abbia l’idea, quando apre il libro, che anche in Italia c’è stato un gigantesco disastro, che queste sono pagine e pagine e queste sono persone e persone, e questi sono bambini e bambini.
Nel corso di questo lavoro il Centro di Documentazione Ebraica ha avuto la possibilità di vedere moltissimi documenti; per una fortunata coincidenza nel 1971 in Germania iniziò il processo contro un criminale tedesco che si era macchiato di crimini in Italia, Friedrich Bosshammer, e la Procura di Stato di Berlino chiese al mio centro studi di cercare tutte le prove a carico per accusarlo. In questo modo ottenemmo i permessi di accesso per gli archivi di stato, permessi che per allora, nel 1970, era assolutamente impossibile ottenere. Così riuscimmo a vedere i fondi della questura e della prefettura di vari archivi di stato periferici. Ricercando le prove a carico di questo persecutore, ritrovammo centinaia di documenti e moltissimi erano ordini di arresto di questo o di quell’ebreo nelle varie province. Ordini di arresto che non sono affatto firmati da tedeschi, ma da questori e prefetti della Repubblica Sociale Italiana. Dovemmo rendercene conto, e forse fino ad allora non l’avevamo fatto. La persecuzione antiebraica in Italia ebbe, sì, una fase iniziale tedesca. A Roma ci fu il rastrellamento del ghetto -molti films e molti libri vi sono dedicati- che avvenne il 16 ottobre del 1943: i tedeschi arrivarono a Roma e agirono nel giro di ventiquattro ore, con un rastrellamento ferocissimo, di sorpresa, penetrando nelle case, sfondando le porte, portando via la gente che ancora era addormentata, alle cinque del mattino. Fu una retata autonoma, nel senso che venne fatta da tedeschi con metodi tedeschi. Questa fase durò per tutti i mesi di ottobre e di novembre. Ma alla fine di novembre iniziò la compenetrazione della politica nazista con quella della Repubblica Sociale.
Fino al 30 novembre la Repubblica Sociale non era ancora saldamente consolidata, Mussolini aveva dei problemi perché i tedeschi non volevano lasciargli un esercito, non si sapeva se la polizia era fedele al regime, se la burocrazia e l’amministrazione avrebbero retto la nuova Repubblica Sociale e così i tedeschi approfittarono di questo vuoto di potere italiano per fare rastrellamenti come quello di Roma. Ma dal 3O novembre 1943, è lo stato italiano, lo stato della Repubblica Sociale che, in piena autonomia, decide la persecuzione. Cosa significa? Significa che un ordine di polizia viene emesso e con questo decreto tutti gli ebrei sul suolo devono essere arrestati, internati e tutti i loro beni devono essere sequestrati. Questo vuol dire che dal 30 novembre i tedeschi possono tranquillamente passare la mano agli italiani perché saranno loro a trovarli, ad arrestarli, ad internarli. Non certo a deportarli perché la politica italiana ha pur sempre una grande differenza con quella tedesca, e che comunque non è volta allo sterminio. Ma tutto il primo passaggio viene fatto dalla polizia italiana.
Volevo aggiungere ancora qualcosa rispetto alla nostra storia, la storia locale. Credo che Fabio Levi abbia ben messo in rilievo che la politica fascista della legislazione antiebraica, che durò dal ’38 al ’43 aveva preparato sia gli animi, sia una successiva politica più forte e persecutoria, che si mise in atto dal ’43 al ’45. Non dimentichiamo che in Italia c’erano migliaia di ebrei stranieri, fuggiti dalla Germania, dalla Cecoslovacchia, dalla Romania e dalla Polonia perché pensavano che da qui avrebbero potuto imbarcarsi per gli Stati Uniti o per la Palestina sotto mandato britannico. Queste migliaia di ebrei, che erano in parte clandestini, non conoscevano la lingua, non conoscevano i luoghi ed erano strettamente sorvegliati dalla polizia italiana, erano alla mercé dei rastrellamenti e delle razzie. Vi faccio un solo esempio: due delle diciotto vittime del campo di aviazione di Forlì sono i coniugi Amsterdam o Amsterdamer. Erano arrivati nel 1940 dalla Romania, erano scesi a Trieste per raggiungere Bengasi e di lì emigrare in Palestina. A Bengasi dovevano incontrare altri profughi, anche loro scesi dall’Europa orientale, e lì formare una nave per tentare di forzare il blocco inglese al largo della Palestina, cosa difficilissima allora, perché la Palestina era sotto mandato britannico e questo impediva agli ebrei perseguitati e fuggitivi di entrarvi; c’erano al largo le navi inglesi che fermavano i profughi e li mandavano indietro. A Bengasi questi profughi si riunirono effettivamente, si imbarcarono, erano più di trecento, ma non tentarono neanche di forzare il blocco inglese, quindi cominciarono a vagare per il Mediterraneo. Ritornarono a Bengasi dove trovarono le autorità italiane che li accolsero con un regime poliziesco, nel senso che li internarono tutti e li mandarono in Italia, nel campo di internamento di Ferramonti di Tarsia. E lì si fermarono, sotto stretta sorveglianza poliziesca. Ora, si dà il caso che Ferramonti, vicino a Cosenza, sia stato uno dei primi campi di internamento europei ad essere liberato dalle armate alleate che risalivano la penisola, nell’autunno del 1943. Ma questi poveri coniugi Amsterdam, da Ferramonti di Tarsia, furono trasferiti più a nord, in internamento a Forlì, dalla polizia italiana, e lì successe quel che successe, furono due delle diciotto vittime dell’aereoporto. Questo per dimostrare come questa stretta interdipendenza tra polizia italiana e polizia tedesca non va assolutamente dimenticata, e fu quella che procurò alla fine i maggiori disastri per gli ebrei italiani. Grazie.
Intervento di Gianni Sofri da un convegno del 1992
QUESTO CONVEGNO
Da Una città n. 11, marzo 1992
Qualcuno ha chiesto, e non so se gli abbiamo risposto, perché torna la svastica. E’ un ritorno, in effetti, preoccupante a tutti i livelli. Abbiamo letto notizie inquietanti sul presidente della Croazia, sulla Lituania… Sono emerse cose pazzesche sulla Lituania: voi sapete che molti lituani cominciarono, durante la seconda guerra mondiale, a lottare al fianco dei nazisti contro gli occupanti sovietici, ma poi finirono anche per collaborare nella persecuzione degli ebrei. Su questo triste episodio non c’è stata per ora alcuna autocritica, anzi!… Insomma, quando parliamo di antisemitismo oggi non dobbiamo credere che si tratti solo dei naziskin che abbiamo visto nella trasmissione di Giuliano Ferrara. Oggi l’antisemitismo è fortemente presente in larghe fasce giovanili, ma non solo giovanili,della Germania Orientale; è presente in buona parte dei paesi dell’Europa orientale, benché i milioni di ebrei che vi abitavano prima della Shoah siano solo ridotti a poche decine di migliaia; è presente in alcune tendenze, diciamo così per intenderci, di destra, nazionaliste e panrusse, della Chiesa ortodossa russa, come Pamjat. più vicino a noi, in Francia e in Svizzera, si violano turpemente tombe di ebrei. Esiste anche un antisemitismo di altro tipo, di difficile assimilazione a quello europeo, nel mondo arabo e musulmano (ma per il momento lo metterei da parte). Quindi il fenomeno dell’antisemitismo oggi è un grosso fenomeno. Dicevo prima che l storia non risolve quasi mai un problema una volta per tutte: lo vediamo oggi con la rinascita dei nazionalismi, delle guerre di religione, ecc. Persino rispetto all’antisemitismo, neppure un evento spaventoso e indicibile come lo sterminio è stato un vaccino sufficiente. Per lo meno non per sempre. Vorrei insistere: dicendo che la storia non risolve i problemi una volta per tutte, non pensavo a piccoli residui, più o meno innocui e facili da controllare. La ripresa odierna dell’antisemitismo è un fenomeno grosso, che non va sottovalutato. Non si può abbassare la guardia.
Noi in Italia abbiamo avuto degli episodi, anche molto brutti. Ci sono elementi, non tanto di antisemitismo (come in alcuni movimenti francesi), quanto di razzismo più generale, nelle leghe. Soprattutto, abbiamo una fetta di mondo giovanile che si agita riesumando vecchi slogan e facendo propria una cultura quanto meno ambigua e inconsistente, una pseudo-cultura. Ora, come comportarsi rispetto a queste cose? Questo è un problema politico, ma anche culturale, molto importante. Io credo che una prima cosa da dire sia questa: che bisogna sempre guardarsi dall’assimilare il presente al passato. O meglio. E’ vero che esiste una continuità nella storia del razzismo su base “scientifica” (parlo di questo, perché altrimenti, se per razzismo intendiamo ogni forma di etnocentrismo, allora non finiamo più, cioè si parte dalla preistoria, dalle società primitive, ecc.). Quindi c’è una continuità che va tenuta presente: per esempio, non è un caso che i naziskin possano avere tra le mani una copia del Mein Kampf. E però sarebbe molto sbagliato da parte nostra privilegiare l’elemento della continuità anziché sforzarci, con tutte le nostre forze, di vedere lo specifico che di volta in volta si presenta nel fenomeno. E allora -ma qui non è certo il momento né il luogo per farlo, e io non ne sarei in grado, perché ci vorrebbe il contributo di analisti del mondo giovanile, di sociologi, di psicologi, di pedagogisti e studiosi della politica-, allora, dicevo, la mia sensazione è che, molto spesso, anche l’uso di tesi alla Faurisson sulla non-esistenza dei campi di sterminio, l’uso di vecchi testi, di vecchie simbologie, ecc., si colleghino in un amalgama assai confuso, che non è immediatamente (e semplicemente) riconducibile al nazismo.
E però, detto questo, uno sarebbe tentato di concludere: “ma allora dobbiamo lasciarli fare?”. E’ un problema molto inquietante.
Rispetto al lasciarli fare, se è vero che la storia qualche cosa insegna (non che sia magistra vitae, per carità!, non ci crede più nessuno, ma se insegna qualcosa), allora, nei primi anni Venti, Hitler era uno dei tanti, ce n’erano tanti nella Germania di allora, e non tutti imbianchini, cioè facevano anche altri mestieri…, che andavano in giro dicendo che prima o poi gli ebrei andavano sterminati. Se qualcuno li avesse fermati, se qualcuno li avesse mandati da un buon psichiatra (e ce n’erano, soprattutto in Germania, di eccellenti), forse le cose avrebbero preso un’altra piega. Per carità, la storia non è mai, lo sappiamo, solo opera di singoli individui. La storia esige che si muovano forze profonde, strutture, eccetera. Però se intanto si fermassero in qualche modo i singoli individui, sarebbe un buon risultato: non sufficiente da solo, certo, ma qualcosa sì. Voglio dire che a volte, nella storiografia, bisognerebbe recuperare il naso di Cleopatra. Voi sapete che Croce aveva -e giustamente- attaccato questa forma di storiografia, che lui accusava di essere quella del “naso di Cleopatra” appunto: una storiografia secondo cui i rapporti tra Romani, Egiziani e in genere le cose che accaddero allora nel Mediterraneo avrebbero preso una certa piega perché Cleopatra aveva un nasino all’insù particolarmente affascinante, in grado di conquistare alcuni importanti leader politici romani. Croce, naturalmente, ironizzava su questo, e diceva: no, le strutture profonde, lo Spirito della Storia, l’Idea, ecc. (altri avrebbero detto i rapporti di produzione) fanno la storia. In realtà, a volte, la storia è fatta davvero anche di coincidenze, di circostanze banali, e credo che noi lo stiamo proprio riscoprendo in questo periodo: altrimenti nessuno capirebbe, per esempio, gran parte della politica italiana dell’ultimo anno, nella quale è difficile vedere strutture profonde, mentre c’è un gran fiorire di nasi di Cleopatra… Naturalmente, si potrebbe discutere se questo sia Storia, ma tant’è…
Vengo all’ultimo punto, che vuole essere anche da parte mia un saluto e un ringraziamento a voi tutti. Io non so se gli organizzatori, …Massimo Tesei, per esempio, avrebbe voluto magari dei risultati maggiori.
Io devo dire che personalmente ho trovato molto interessante questa serata, ho trovato interessante l’iniziativa in sé (mi sono anche fatto raccontare come sono andate le cose, le puntate precedenti, di stamattina e del pomeriggio). Io non credo che in una situazione del genere potessero emergere né una serie di importanti rivelazioni storiche improvvisamente fermentate all’interno di una sala del Comune di Forlì, né una soluzione di problemi quali quello del nostro rapporto col razzismo, per dirne uno. Tuttavia, di problemi, ne abbiamo messi a fuoco tanti, che chiaramente non si potrebbero mai risolvere in una serata, in un gruppo volenteroso di persone, quando sono problemi che invece impegnano al loro massimo la nostra cultura e altre culture da alcuni decenni.
Io trovo che invece sia stato molto positivo da tutti e due i punti di vista sia di aver presentato in maniera non accademica quello che avrebbe potuto essere un tipico prodotto accademico, e cioè i risultati di una ricerca. Risultati non freddi (come spesso è nelle ricerche accademiche), ma, come ho cercato di dire prima nella mia breve introduzione, palpitanti di vita e per questo commoventi, coinvolgenti, anche per persone, come molti di noi qui dentro, che non sono studiosi, ma che amano, e vogliono, ricordare. Quindi credo che questo sia stato importante, ed è un primo punto.
Mentre il secondo punto importante credo sia stato semplicemente questo: che un numero elevato di persone, considerando le tre volte in cui ci si è radunati a discorrere, stamattina, questo pomeriggio e stasera, sia stato invitato a ripensare a dei problemi che forse molti di noi ritenevano, a torto, già chiari e definiti. Io sono, ovviamente, d’accordo con la Signora che prima diceva: “Noi sappiamo che i campi di concentramento, i campi di sterminio ci sono stati”. Non c’è bisogno di discutere di questo. Però ci sono ancora tante cose che dobbiamo capire, e che riguardano il passato, ma che riguardano anche noi, o per lo meno i nostri figli, se noi stessi non ci sentiamo più in grado di fare progetti per il nostro futuro. Ecco, da questo punto di vista, non so voi di Forlì, che forse puntate molto in alto… Noi che abitiamo in città lievemente più grandi siamo diventati forse più stanchi e scettici, e ci contentiamo più facilmente.
Io, di questa serata, sarei molto contento.
Da Una città n. 16, ottobre 1992
TORNANO I NOMI
IL DOVERE DELLA MEMORIA
S’è svolta al cimitero monumentale di Forlì la cerimonia di scoprimento della lapide sulla tomba degli ebrei caduti nel ’44. E’ stata una bella cerimonia. Aperta dalle parole di ammenda dell’assessore Zelli, a riparazione della dimenticanza della città, cui sono seguite quelle del Sindaco Sedioli, del Rabbino Caro, del vicepresidente della Comunità Ebraica di Ferrara, Bonfiglioli, e di Tullia Zevi. Tutti hanno messo in risalto l’attualità e l’importanza del ricordo in un momento in cui, nell’Europa di oggi, si tenta da più parti di rimuovere, addirittura di negare, ciò che successe ieri. Un’Europa dove, dalle profanazioni delle tombe ebraiche e dagli attacchi agli ostelli per extracomunitari, si è arrivati alla programmazione della deportazione degli zingari. E questo nell’indifferenza, nell’ignavia, o nell’incredulità di tanti di noi.
Ritrovarsi attorno a quella pietra insieme a coloro che sopravvissero a quel passato è stato bello e importante. Anche per continuare un impegno che per noi resta punto d’onore.
L’intervento di Tullia Zevi, Presidente delle Comunità Israelitiche Italiane
Signor prefetto, signor sindaco, signor rabbino, cari amici, cari compagni e, se mi permettete, cari fratelli e sorelle, perchè penso che il fatto di essere qui riuniti in questa pia, straordinaria e nobile cerimonia fa di noi tutti fratelli e sorelle. Devo esprimere, anche a nome di tutte le comunità ebraiche italiane, il profondissimo apprezzamento e la gratitudine per questa decisione del Comune di Forlì di dare sepoltura, anche se a 50 anni di distanza, a queste vittime del nazifascismo. Voglio esprimere gratitudine a quella suora che, malgrado il suo stesso vescovo la sconsigliasse, ebbe il coraggio di andare a riconoscere quelle povere salme e questa fu la preparazione all’onorata sepoltura che ricevono oggi; e alla dottoressa Saiani che, con pazienza e intelligenza, ha fatto tutte le ricerche e gettato luce su un passato che rimaneva pieno di ombre.
Mi pare che questa cerimonia sia carica di significati simbolici, perchè questo è un monumento alla memoria, al dovere della memoria, è un monito a non dimenticare. Oggi alcuni, troppi movimenti e individui si sforzano di cancellare, di distruggere, di negare la memoria. E’ stato detto che chi dimentica il proprio passato è condannato a riviverlo. Per questo è importante ricordare, perchè i segnali di una possibilità di rivivere questo passato che non vuole passare sono molti e minacciosi. Proprio la notte scorsa, anniversario della riunificazione tedesca, sono stati compiuti oltraggi contro cimiteri ebraici. Nel solo 1991 in Germania sono stati profanati 84 cimiteri ebraici, e devo dire che queste dissacrazioni e orrori non hanno risparmiato la Francia e hanno sfiorato l’Italia.
L’Europa è percorsa, minacciata da fremiti di nazionalismi esasperati, di xenofobia violenta, di antisemitismo. Le radici sono diverse, ma sono concomitanti nella minaccia alla democrazia in Europa. Che cosa significa oggi la xenofobia, specialmente rivolta contro gli extracomunitari? E’ la paura del diverso, è il continente che ha conosciuto il benessere, ma che dà segni di crisi e attraversa disagi fortissimi, e si sente minacciato nella propria sicurezza e nel proprio benessere. L’antisemitismo ha radici diverse, ma praticamente si assomma alla xenofobia e al razzismo. (…)
Con questa cerimonia noi simboleggiamo coloro che hanno il dovere di ricordare. In questo cimitero, gli uni vicini agli altri, ci sono ebrei, atei, cattolici. (…) Significa che dobbiamo stare insieme, essere uniti, dialogare ed operare per il bene comune. Alle nostre porte, l’ha ricordato il signor sindaco, stanno avvenendo cose atroci. Abbiamo visto fotografie che pensavamo non fossero possibili in quest’Europa che si considera civilissima, ahimè.
Questa nostra presenza qui oggi mi pare che sia simbolica del dovere di ricordare e di lavorare insieme perché gli orrori che hanno percorso l’Europa 50 anni fa non solo non vengano dimenticati, ma non debbano ripetersi.
Tullia Zevi
L’intervento di don Sergio Sala
L’epigrafe che finalmente ci si è decisi a porre per tutti quegli Ebrei fucilati anche a Forlì, è una memoria che fa ritrovare la nostra stessa identità. Non è un dovere ricordare; è anche l’indispensabile cammino da compiere per non perdere anche noi stessi. Ormai siamo stati tutti segnati da quello sterminio e non basta il trascorrere del tempo o la naturale voglia di vivere e nemmeno i nuovi grandi problemi del mondo per dimenticare e passare oltre. Gli Ebrei sopravvissuti non sono stati abbandonati dall’angoscia, che spesso anzi li ha travolti nel suicidio di un’esistenza impossibile; ma anche per noi salvati, il ricordo che continuamente ritorna è la ripresa della nostra storia, anche individuale: di ciò che amiamo. Fedelmente, perché convinti, non emozionati soltanto.
E l’epigrafe, che fa tornare i Nomi propri, ci fa comprendere meglio che appunto così vanno ricordati: individualmente, come singoli; con il loro volto, direbbe Levinas. Certamente, dietro ciascuno di loro c’è il “problema ebraico”, la storia complessiva dei popoli, lo scontro delle culture e delle visioni del mondo; ed è appunto questo che li ha uccisi. Ma è ciascuno di loro che conta: basta uno solo. Anche -soprattutto- quando il corpo non è stato nemmeno identificato. Anche quando è indicato da una semplice sigla K.Z…. Nemmeno il numero enorme, “sterminato”, dei 6 milioni può oscurare nella quantità il significato di ciascuno di loro: l’uomo, come Dio, non fa numero. Come diceva la prof. Faggiotto nel convegno di febbraio qui a Forlì, questa ricerca personale va in senso precisamente contrario al tentativo dell’odio nazista di soppressione assoluta; e appunto con l’epigrafe riprendiamo il contatto personale con ciascuno di loro: tornano i Nomi. Ognuno -immortale e insostituibile- si aggiunge ai nomi più noti di Anna Frank, Danielle, Etty Hillesum… Rileggendo questi dei fucilati di Forlì si sentono risuonare le promesse non mantenute di Dio: Sara, “la principessa”; Israel, “Dio si mostri forte”; Levi, “Dio si legherà”. E i nomi di famiglia che invece ricordano le folli perversioni dell’uomo che li ha segregati nei ghetti delle città: Amsterdam, Morpurgo… Ogni loro Nome è così carico di storia e promesse. Per questo, credo che solo la biografia, il diario, le lettere siano il linguaggio più rispettoso e appropriato per questa memoria. Impediscono il generale astratto e costringono alle esistenze concrete. Premuniscono visceralmente dal conteggio falso della letteratura revisionista e rivelano, come lo yddish di Singer, la lingua dell’esilio, la storia vera della gente povera e smarrita. Ma che proprio così ci giudica. Uno di loro, nel ghetto di Varsavia, ha lasciato scritto: “Ciò che non potevamo gridare in faccia al mondo, l’abbiamo nascosto sottoterra…”. Noi ora a Forlì sentiamo quel grido. Non si impara la Shoah sui libri, ma leggendo quei Nomi dell’epigrafe molti penseranno ai sintomi inquietanti del nostro tempo; come giustamente è stato detto che “quanti non ricordano il passato sono condannati a riviverne in futuro gli orrori”. Per molto meno di Rostock in passato avvenivano i pogrom. Il male esiste, minaccioso e potente; ma tutto dipende pur sempre dalla nostra libertà e dal coraggio di giocarsi. Quei Nomi dell’epigrafe non provocano uno sterile complesso di colpa (anche se tutti in qualche modo ne siamo responsabili) ma sommuovono la coscienza etica responsabile e attiva, che ci impedisce -come invece è stato nel ’33- di stare a guardare. E allora, il 2 novembre è vicino, come far conoscere quell’epigrafe ai nostri concittadini? La scuola è appena iniziata: come insegnare storia a chi non sa? Nell’attuale crisi della politica come ricordare il contributo degli Ebrei alla storia della nostra Liberazione?