ERANO TUTTI DEI PATRIOTI…

Una famiglia ebraica fiorentina, imbevuta
di italianismo, in cui brilla la figura di Alessandro D’Ancona. La vocazione sionista del padre e l’arrivo, nel ’39, in Palestina, e poi l’entrata nell’Haganà, l’attività clandestina e le giornate epiche e dolorose del 48. L’amore per il proprio paese, nonostante tutto. Intervista a Paola Cividalli.

Paola Cividalli Lazard è nata a Firenze nel 1925. Ha lasciato l’Italia nel 1938 e dopo aver riparato qualche mese in Svizzera con la madre e i fratelli, tutti assieme hanno potuto raggiungere la Palestina, dove li attendeva il padre, Gualtiero Cividalli, che li aveva preceduti. Nel 1941 è entrata nella sezione giovanile dell’Haganà. Nel 1944, dopo la maturità, si è arruolata volontaria nell’esercito britannico. E’ stata smobilitata nel 1946 col grado di caporale. Interrotta l’università nel 1947, ha combattuto la Guerra d’Indipendenza a Gerusalemme. E’ stata congedata nel 1949. Nel 1955 ha sposato Bertrand Lazard, un fisico francese mandato in Israele per studiare un processo di produzione dell’acqua pesante presso il centro Weizman. Dopo il matrimonio si è trasferita a Parigi dove oggi vive con Bertrand. Hanno quattro figli: Daniel, Myriam, Anne e Emmanuel, e diversi nipoti. Almeno una volta all’anno torna in Israele, dove ancora vivono le sorelle Lia e Bona, il fratello Piero e il figlio Daniel con la sua famiglia.

Pubblicato su Una città n. 158, agosto-settembre 2008

 


Mio padre e mia madre si sono conosciuti al liceo e hanno deciso di sposarsi quando avevano 13 e14 anni (c’è giusto un anno di differenza tra di loro). Mia madre era in classe con Nello Rosselli, so che già al liceo erano molto attivi.
Quello della mia famiglia era un background molto italiano, specialmente dalla parte materna. Il nonno della mia mamma, Alessandro D’Ancona, era senatore e amico della famiglia reale, è stato sindaco di Pisa e rettore della Normale di Pisa. Il fratello maggiore era stato senatore prima di lui, erano stati tutti molto attivi nel periodo del risorgimento italiano.
Io non l’ho conosciuto perché è morto dieci anni prima che nascessi. Ho un libro che il babbo mi ha lasciato, una copia delle “laudi d’oltremare” di D’Annunzio che era stata censurata dall’Italia perché c’era una cosa contro Cecco Beppe. D’Annunzio aveva scritto a mano con inchiostro rosso le frasi censurate e l’aveva indirizzata a mio nonno chiamandolo “maestro di italianità”. Non ho voluto venderla all’asta, cercavo un luogo adeguato. Mi è stato proposto di darla al Vittoriale e così ho fatto. Ma me ne sono pentita, perché al Vittoriale non avevano mai sentito parlare di Alessandro D’Ancona, insomma non hanno davvero saputo apprezzare. Sì, mi hanno ringraziato, ma non hanno nemmeno capito il valore.
Comunque ho fatto una fotocopia della pagina con la dedica “ad Alessandro D’Ancona maestro d’italianità” con la firma di D’Annunzio sotto, una firma grandiosa ovviamente.
Alessandro D’Ancona era un uomo straordinario. Anche il testamento che ha lasciato, inedito, è sorprendentemente profetico. Ne leggo la prima parte.
E’ una lettera ai figli allegata all’ultimo atto di volontà. La data è I gennaio 1898.
“Ai miei figli, io vi lascio, figlioli, in un mondo sconvolto. Nacqui in un tempo di speranze, che per troppo breve tempo ho visto effettuarsi, e me ne vado in un tempo di paura e di angosce. Il mondo è così stolto, che vorrà bere il calice di amari succhi, ma dagli orli dolci e lusinghieri che gli offrono gli utopisti, e in fondo al quale sta la delusione. Gli uomini corrono stupidamente dietro la chimera della perfetta uguaglianza, anzi dell’uniformità, contraddicendo alla natura che l’uguaglianza non ha voluto in nessuna sua creazione. Certamente la vita umana è piena di mali, ma cotesta non è la via per eliminarli. I sogni dei socialisti, collettivisti, anarchici, ecc. priveranno il mondo della libertà; e se pur le società umane potessero durare per qualche tempo come essi consigliano, lo spegnersi dell’energia individuale, il sopprimersi d’ogni originalità di pensiero e d’opere, l’annientamento dell’operosità umana farebbero perire di noia e di inazione l’uman genere. Quando poi il mondo si scuoterà dal giogo degli utopisti, risorgerà più potente lo spirito religioso e non il vero spirito, ma la superstizione, e alla dinamite sarà surrogata l’acqua di Lourdes. Succederà un periodo di fanatismo intollerante. Attraversando questo periodo i miei figli non credano essere nomi vani la morale e la virtù, ma si mantengano massimamente onesti, né dimentichino mai l’affetto doveroso verso la patria. L’uomo appartiene in astratto al genere umano, ma è cittadino soltanto del paese dove è nato. Si serbino dunque italiani, se anche sopravvengano tempi nei quali si rinfacci loro l’origine israelitica o come si dice semitica, che ha ad essi assegnato quell’arcano potere che governa le cose mondane. E se alcuno ciò facesse, rispondano che anch’egli poteva nascere o israelita, o turco o barbaro o selvaggio, e che essi sono italiani perché lunga serie dei loro antenati è qui nata e sepolta. Perché nei tempi men civili quei loro vecchi han pagato la gloria di dirsi italiani coi vilipendi, con le persecuzioni e forse col martirio. E tal sorte ingiusta è pei nipoti titolo di cittadinanza e di nobiltà perché infine, appena l’Italia risorse tra le nazioni e agli israeliti furono aperte le vie dell’operosità intellettuale che ad essi erano vietate, il padre loro ha, secondo le proprie forze, contribuito alla cultura nazionale”.
Un documento straordinario, commovente. Se poi si pensa che è datato 1898…
Questo per dire che noi eravamo imbevuti di italianismo, il babbo aveva fatto parte dei famosi soldatini del ’99 e aveva partecipato alla battaglia di Vittorio Veneto dove aveva guadagnato la croce di guerra. Erano tutti dei patrioti.
Il babbo era stato anche segretario del famoso Giornalino della domenica, quando era studente a Roma era l’aiutante di Vamba. Il giornalino aveva preso una posizione netta contro i primi movimenti fascisti.
I miei nonni materni, proprietari terrieri, erano invece molto anticomunisti -proprio per italianismo- e si ritrovarono fascisti non per ideologia, ma semplicemente per l’Italia, per la pace… Il mio nonno era stato il presidente della cattedra dei Georgofili di Firenze, era molto benvoluto da tutti.
Siamo cresciuti in un’atmosfera borghese, ma al tempo stesso con dei valori morali molto solidi. Quello è sempre stato l’accento nella mia educazione. Mio babbo raccontava sempre un aneddoto su di me. Fin da piccina mi avevano inculcato l’idea di essere onesti. Ecco, un giorno lo vidi riadoperare un francobollo che non era stato timbrato e mi scandalizzai: “Ma babbo, non ti puoi permettere, è disonesto riadoperare un francobollo”. Questo ti dà un’idea dell’aria che si respirava.

Nell’ottobre del 1925, dopo la famosa notte in cui a Firenze i fascisti ammazzarono quattro persone, erano venuti a cercare anche il babbo, ma non era in casa, era in campagna. Era già un convinto antifascista, ma dopo questo incidente dovette promettere ai nonni, ai genitori della mamma, che non avrebbe fatto dell’antifascismo attivo e si buttò nel sionismo.
Devo dire che i miei nonni materni non erano stati molto favorevoli al matrimonio della loro figliola perché il babbo veniva da una famiglia molto più modesta. I nonni in più sapevano che il babbo aveva queste idee sioniste, così prima del matrimonio gli fecero promettere che non avrebbe portato la mamma all’estero.
Questo per dire che quando invece alla fine ce ne andammo, beh, non fu una decisione facile.
Già nel corso del ’38 (prima dell’emanazione delle leggi), subito dopo la visita di Mussolini ad Hitler, il babbo aveva cominciato a pensare al nostro avvenire. Noi quell’estate eravamo in montagna, a Cortina d’Ampezzo, dove nostra sorella è nata con un mese di anticipo, il 29 di agosto, due giorni prima che si dovesse lasciare la casa. A quel punto nonna e la sua amica, la zia Lina, ci portarono a Venezia, noi tre grandi, per lasciare la mamma tranquilla a riposare qualche giorno in montagna.
Ecco, è stato mentre eravamo a Venezia che abbiamo sentito l’annuncio che i bambini ebrei non sarebbero più potuti andare alla scuola pubblica. Non so le date, non ricordo se fosse già un annuncio ufficiale, ricordo noi tre che per le strade di Venezia d’un tratto abbiamo sentito queste voci delle radio e siamo restati così… Dopo le cose sono precipitate.
In quel periodo il babbo aveva avuto l’incarico della ristrutturazione del palazzo Strozzi a Firenze, che apparteneva ancora alla Fondiaria o all’Ina, ad una società di assicurazioni. Il palazzo doveva diventare sede di vari uffici, mantenendo però il carattere dell’edificio originale. Lui aveva fatto tutti i piani, ma alla fine di settembre gli comunicarono: “Ci dispiace ma noi non possiamo più continuare ad affidarle questo lavoro, se ci dà i piani…”. Lui rispose: “No, se non li adoprate sotto il mio nome, io i piani non ve li do”. Insomma per chiudere la faccenda gli hanno dato una certa somma, che ci ha aiutato poi per andare in Palestina. Il babbo aveva sempre avuto questo desiderio, da tempo era attivo nel movimento sionista fiorentino. La decisione fu presa abbastanza in fretta, il babbo ci portò prima in Svizzera (rimanemmo tre mesi a Losanna), e poi partì in avanscoperta per la Palestina. Lì, grazie al fatto che aveva duemila sterline, ottenne un visto di “possidente” che gli permise di far andare la famiglia.

Quando siamo partiti per la Palestina, io avevo 13 anni e mezzo. Io sono la maggiore, Piero ha un anno e mezzo meno di me e Bona un anno e mezzo meno di Piero, tra Bona e me corrono esattamente tre anni. La nostra sorellina più giovane, Lia, aveva sei mesi e Gabriel 3 anni e mezzo. Siamo arrivati in Palestina il 2 o il 3 di marzo del ’39, mentre il babbo era arrivato il primo gennaio. Noi ci siamo adattati subito alla nuova vita, anzi Bona e io ci siamo buttate a capofitto, abbiamo cercato di integrarci completamente. Quando sono entrata nell’Haganà io avevo 15 anni!
Non dimenticherò mai la scena del giuramento. Ero stata presentata da un compagno di classe, il tutto nella segretezza che vigeva allora, per via degli inglesi, fui quindi introdotta in una stanza non so di che misura, lì mi puntarono addosso un proiettore che ti accecava completamente di luce, dopodiché ricordo queste voci dietro il proiettore che ti parlavano e tu dovevi giurare il segreto… una messa in scena molto efficace.
Dopo il primo anno fui mandata in riposo temporaneo. Allora ci facevano fare delle marce, ci insegnavano segnali con bastoni e bandiere, non si usavano ancora le armi. Venivamo addestrati a tutto quello che i giovani potevano fare per aiutare l’Haganà, nelle retrovie diciamo. Tra l’altro ai tempi c’erano delle idee strane, ci facevano marciare senza bere, perché l’idea era che bisognava indurirsi. Insomma, dopo essere caduta due volte, mi hanno messo a riposo, e ho lasciato l’Haganà, l’attività fisica, praticamente fino a che sono tornata all’università.
In realtà siccome si era nell’Haganà anche durante il servizio militare sotto gli inglesi, ognuno faceva quello che poteva. Nel caso mio l’unica cosa che potevo fare era rubacchiare i formulari dell’esercito inglese. Era una cosa molto utile. Forse non lo sapete, ma subito dopo la guerra, quando c’è stato l’afflusso dei sopravvissuti dei campi, gli inglesi avevano chiuso le porte per entrare in Palestina e i soldati palestinesi ebrei hanno cercato in tutti i modi di aiutare l’immigrazione clandestina. Tra le altre cose hanno creato un’unità fantasma, un’unità di trasporti che aveva un suo numero, dei fogli ufficiali eccetera, che ha continuato a funzionare per vari mesi in Italia, prendendo la benzina dai posti di rifornimento dell’esercito; un’unità che non esisteva, ma gli inglesi non se ne sono accorti. Per questo c’era sempre bisogno di formulari e moduli ufficiali, perciò chi riusciva a portarne via qualcuno vergine svolgeva un compito importante.
Le unità palestinesi erano formate al 99,99% da ebrei. Nel ’46 decisero di mandare tutti a casa perché era incominciata l’insurrezione contro gli inglesi in Palestina. Anche Piero tornò un mese o due dopo di me, anche se si era arruolato un anno dopo.

A quel punto sono andata all’università a Gerusalemme. Casualmente sono subito entrata in contatto con un gruppo di giovani universitari che avevano formato il partito comunista ebraico dove sono stata attiva per qualche mese. In realtà non era un vero partito, ma un’associazione di cui facevano parte soprattutto alcuni studenti e assistenti universitari -eravamo molto fieri di contare anche un operaio fra i 170 membri… Comunque, a partire dal ’47, siamo tutti confluiti nell’Haganà. Ho avuto vari compagni morti, del partito comunista, proprio nei primi giorni della guerra.
A Gerusalemme noi italiani facevamo un bel gruppo, eravamo legati da una forte amicizia e non ci siamo persi, nonostante ciascuno studiasse cose differenti. Avevamo più o meno la stessa età: Enzo Genazzani ha un anno meno di me, Bruno Servadio ha l’età di Piero, poi c’era una ragazza della scuola infermiere e un’altra più giovane… Ricordo che molti genitori facevano pressioni: “Tornate a Tel Aviv, Gerusalemme è pericolosa…”.
Devo dire che i miei genitori non sono mai intervenuti. Dicevano: “Fate quello che dovete, solo quello che dovete. Mai esagerare: quello che dovete fare e niente di vostra testa”. E allora siamo rimasti anche perché a Gerusalemme l’Haganà praticamente era costituita quasi solo dagli studenti. La gran parte dei combattenti di Gerusalemme erano venuti da fuori.
D’altra parte a Gerusalemme di gioventù che non fosse ultrareligiosa non ce n’era molta. Certo sono state giornate epiche. La cosa più straordinaria è stato lo sforzo compiuto da tutti senza distinzione di età, formazione, ecc.
Non dimenticherò mai il professor Raccah professore di fisica all’università, che era un semplice soldato sotto il comando di uno dei suoi allievi. E questo gli sembrava perfettamente normale!
Gerusalemme era una città molto più piccola di quanto non sia oggi; oltre ai religiosi e agli universitari, c’era un gruppo di borghesi più o meno benestanti. Nessuno allora si tirò indietro. Non mi dimenticherò mai di Umberto Nahon, che allora mi pareva vecchio ed era un alto impiegato dell’Agenzia Ebraica, mandato in Italia all’inizio della guerra per raccogliere fondi e tornato con l’ultima carovana arrivata a Gerusalemme, ai primi di aprile, prima che il passaggio fosse chiuso completamente. Fisicamente non era certo un atleta, eppure andò con altri a portare le pietre per la famosa strada Burma. Assediare Gerusalemme era facile perché c’era una sola strada che collegava la città a Tel Aviv che in più a un tratto finiva in una strettoia che era in mano agli arabi.
Di qui l’idea di costruire una via alternativa, chiamata Burma road in memoria di quella inventata dagli inglesi per passare dietro le truppe giapponesi.
Ecco, Umberto Nahon era uno dei tanti che ha costruito questa strada, in gran parte di notte.

E’ stato un periodo molto intenso. Anche doloroso. Ho visto tanti dei miei compagni morire. Però c’era uno spirito straordinario. Non c’era odio verso gli arabi. C’era indignazione, specialmente dopo alcuni eccidi. Ricordo i 35 studenti dell’università andati a portare aiuto a un kibbutz vicino a Hebron, che vennero trucidati. Gli arabi poi non avevano degli eserciti organizzati, all’occorrenza si chiamavano gli uni gli altri e visto che erano tutti armati, legalmente o illegalmente…
Questo era quello che succedeva ma non c’era odio. C’è stato quell’episodio terribile di Deir Yassin compiuto dall’Etzel, il partito revisionista con la sua milizia (in perpetuo disaccordo con l’Haganà, l’organizzazione di difesa sotto il controllo del “Governo” della popolazione ebraica), che appunto trucidò oltre 200 persone. L’Haganà però reagì con una riprovazione assoluta che poi avrebbe portato all’episodio dell’Altalena. L’Altalena era la nave piena di armi che l’Etzel aveva raccolto in Europa per portarle in Palestina. E’ accaduto dopo la creazione dello stato. Ben Gurion fu perentorio: “Se c’è uno Stato, c’è un Capo di Stato e un solo esercito. Non vi permetto di creare delle milizie, o ci date le armi o vi attacchiamo”. Loro cercarono comunque di sbarcarle, senza successo, arenarono la nave davanti a Tel Aviv e ci furono degli scontri con dei morti.
Questa vicenda è ancora forte nel mio ricordo perché finalmente, dopo sei mesi che ero stata a Gerusalemme senza vedere i miei, durante la fine della prima tregua riuscii ad avere un permesso di tre giorni per andare a Tel Aviv. Arrivammo di notte, proprio attraverso la Burma road. In certi punti la strada era ancora incompleta, per cui si doveva scendere in modo che il pullman o il camion fosse più leggero. Comunque arrivammo a Tel Aviv alle due di mattina. Per prima cosa andammo al caffè Cassit (l’unico sempre aperto) e ordinammo un’insalata di pomodori e una omelette. A Gerusalemme eravamo sei studenti italiani lontani dalle loro famiglie, tutti in servizio attivo, alcuni attivamente combattenti, tutti vivevamo sotto le cannonate che piovevano alla cieca sulla città, tutti avevamo fame e non avevamo visto niente di fresco da mangiare per vari mesi. Questa è stata la prima cosa, dopodiché ognuno ha cercato di raggiungere la propria casa. Io ho preso un taxi con altre ragazze, mi pare, e ho detto: “Allenby Road”. Noi abitavamo vicinissimo al mare, ma quando arrivammo nei paraggi trovammo la strada sbarrata. Era proprio la notte dell’Altalena. Avevano evacuato tutti gli abitanti fronte mare e quindi anche i miei genitori. A quel punto chiesi al tassista di portarmi a Ramat Gan da alcuni amici, dove poi trovai i miei genitori.
Ecco, ricordo che in quel taxi si scatenò un’accesa discussione politica, perché loro erano di destra e io naturalmente no, e allora si discusse animatamente dell’Altalena e di chi avesse ragione…
Poi tornai a Gerusalemme, ci fu battaglia ancora per qualche giorno, seguita da una seconda tregua, che poi divenne definitiva. Ma ci furono tanti morti e non voglio riaprire momenti dolorosi.

Questa è stata la mia vita. Il mio ritorno all’università fu ritardato dal corso da ufficiale. Una volta ripreso gli studi, mi pagavo parte delle spese facendo la segretaria dell’associazione degli studenti israeliani. Organizzai il primo viaggio di studenti israeliani all’estero. Andammo a Londra e Parigi. Allora tutti ci accoglievano calorosamente, appena la gente per la strada ci sentiva parlare ci avvicinava… Poi questo entusiasmo è passato.
La Palestina di allora non ha niente a che vedere con Israele di oggi. C’è quell’espressione inglese “right or wrong, my country”. Ecco, quello l’ho sempre sentito profondamente e ancora oggi questo è il mio sentimento, però sono molto critica su quello che è successo, e così quelli del mio gruppo, ma ormai siamo tutti vecchi. La Palestina prima del ’48 era un paese in cui non c’erano criminali, dove la maggior parte dei camerieri dei caffè erano professori di università. Si raccontava che quando ci fu un incendio a Nahariya, nel nord, dove c’erano molti ebrei tedeschi, lungo la fila di persone che si passavano dei secchi d’acqua per spegnere l’incendio era tutto un “Bitte, herr doctor” “Danke, herr professor”. Questo dicevano.
Ognuno si era messo a disposizione per fare quello che serviva. Molti erano voluti tornare all’agricoltura…
Nel ’39, al nostro arrivo, Enzo Sereni era venuto a prenderci a Haifa, al porto, e una volta scesi ci aveva detto: “Vi faccio un grande onore, vi porto a mangiare al ristorante degli operai” che era un’istituzione in città. E poi ci aveva portato a visitare il kibbutz. La cosa che mi aveva impressionato erano le docce comuni, erano divise per sesso ovviamente, ma non mi era mai successo di spogliarmi completamente davanti ad altre persone, è stata un’esperienza strana. Alla fine ci aveva portato da un vecchio arabo che aveva un aranceto accanto al kibbutz per farci conoscere i nostri vicini. Lui ci teneva. Questo era lo spirito.
Voglio raccontare un altro aneddoto. Era il ’42 o il ’43 e durante il ginnasio per un mese si andava ad aiutare i kibbutzim. Ricordo che c’era un gruppo di italiani che era in un kibbutz vicino a dove si era accampata la mia classe, ma non abbastanza per andarci a piedi, allora volendo passare il sabato con loro, io e un altro ragazzo prendemmo un autobus e poi attraversammo a piedi una zona in cui c’erano dei contadini arabi con cui ci scambiammo il tipico saluto: “Marhaba, Marhabtein”, una specie di benedizione, a cui si risponde con una doppia benedizione, dei saluti insomma. E arrivammo tranquillamente a questo kibbutz dove ci accolsero increduli: “Ma siete matti? Siete venuti a piedi?!”.
C’erano stati dei disordini, gli arabi avevano organizzato dei moti antiebrei dal ’36 al ’39 ma la vita di tutti i giorni…
C’erano stati degli eccessi da una parte e dall’altra, ma nella popolazione ebraica c’era una solidarietà straordinaria, le porte delle case erano sempre aperte, non solo per la mancanza di criminalità, ma per ospitalità. Noi vecchi lo rimpiangiamo ancora.
Poi tutto è cambiato. Ma per me Israele è sempre la mia patria. Ci ho vissuto solamente 17 anni ma resta il mio paese. Qui in Francia vivo un po’ in un vuoto. Certo, abbiamo amici, conoscenti, la mia casa è sempre aperta, ma non sono entrata nella vita francese. Sì, vado a votare, e sono molto meravigliata che tanti francesi invece non ci vadano, ma resto più vicina -e indignata tante volte- alle cose che succedono in Israele. E’ sempre il mio paese. Come ho detto: “right or wrong, my country”. 

Dopo un anno di studi di perfezionamento a Parigi, e il conseguimento a Gerusalemme di un master in Inglese, Francese e Pedagogia, ho incominciato a lavorare a Yad Vashem come segretaria di direzione. Di lì a qualche mese ho incontrato Bertrand, un fisico francese mandato in Israele dal centro per la Ricerca Atomica francese per studiare il processo di produzione d’acqua pesante. Avevamo dei cugini comuni che prima di partire lo avevano indirizzato: “Ci sono dei cugini in Israele” e così ci siamo incontrati. Ci siamo innamorati. Lui allora viveva a Rehovot, per cui ci vedevamo ogni tanto. Poi ci siamo decisi a sposarci. Io avevo 30 anni e sentivo di aver ormai dato abbastanza al mio paese. Lui ha detto: “Se vuoi vengo a vivere qua”. Ma vivere in Israele è troppo difficile per chi non ci crede, bisogna voler vivere in Israele.
Tra l’altro lui era rimasto figlio unico. La sorella Jacqueline era morta in un incidente stradale al momento dello scoppio della guerra. Era con i genitori nel Sud della Francia, ma avuto notizia che tanto suo marito che suo fratello erano stati richiamati, decise: “Io vado a salutarli”. Così prese l’automobile portando con sé altre persone. Era l’agosto del ’39, la strada era bagnata e finì addosso a un camion, gli altri passeggeri rimasero incolumi, lei morì sul colpo.
Il fratello Alexandre invece fu fucilato dai tedeschi il 23 maggio del 1944 perché membro della “Resistence”. Aveva trovato lavoro come ingegnere in una fabbrica di saponi e olii nei dintorni di Marsiglia. A un certo punto venne accusato di passare delle notizie che impedivano alle navi italiane di approvvigionarsi a questa fabbrica: casualmente incontravano sempre dei sottomarini. Il suo avvocato era riuscito a farlo liberare, erano i tempi di Vichy, ma poi arrivarono i tedeschi che gli tesero un tranello e lo presero in una retata. Dopo varie traversie e trasferimenti da una prigione all’altra finì in Germania dove fu fucilato dopo un processo sommario insieme a 14 francesi.
Il fratello di Bertrand è per me una specie di eroe e tutte le volte che leggo la lettera che ha scritto prima di morire mi metto a piangere. Ne leggo qualche brano. A Bertrand scrisse: “Mon petit bonhomme, perdonami di aver così mal servito come fratello maggiore. Solo oggi comincio a dare l’esempio. Sappi che sono rimasto fedele ai miei amici, ai miei ideali… Mi addolora lasciarti solo ad assistere il papà e la mamma nella loro vecchiaia. Ti giuro però che la partenza da questa terra mi è facile… parto felice, te lo giuro. Va, petit frere, corri, vola e nella vita sii onesto, generoso, nel mio ricordo”. E poi alla madre: “Madame mere, per prima cosa voglio dirvi che finora ho sopportato tutto con gioia e senza fatica. Sarò breve. In qualche minuto raggiungerò madame Pips (la sorella, nda). Vi chiedo perdono per il male che vi ho fatto… ma sappiate che parto felice e fiero, felice di aver compiuto il mio dovere e che Bertrand possa essere fiero del nostro nome… La mia sola pena è pensare alla vostra…”. Aveva solo 32 anni.
Bertrand era pertanto l’unico figlio sopravvissuto, nel frattempo anche il padre era morto. Insomma non me la sono sentita di portare via Bertrand dalla madre. Per me all’inizio è stato molto difficile adattarmi.

La collezione di libri sulla Palestina è cominciata proprio per mantenere il legame con Israele, è cominciata così, ma poi mi ci sono buttata e mi sono appassionata a leggere come era la vita nel paese in epoche lontane. Ci sono dei libri del 500, del 600 che sono molto interessanti per i dettagli di vita…
All’inizio mi interessava il contenuto dei libri, poi mi sono messa a cercare il libro originale, la prima edizione, se possibile, o quella più completa. Ho incominciato molto in piccolo, comprando solo libri che costavano relativamente poco. Anche mio padre mi ha aiutato perché lui ne ha trovati parecchi in Israele e a Firenze.
Poi sono arrivati i libri più cari. Ho avuto l’occasione di avere uno degli incunaboli più belli che possano esistere, il primo con illustrazioni che non siano di carattere esclusivamente religioso. Si tratta del famoso viaggio di Breydenbach in Palestina con delle illustrazioni assolutamente spettacolose. C’è una veduta di Venezia, da dove è partito, che misura un metro e settanta ed è di una vivacità, con una descrizione molto esatta della città e dei monumenti.
E’ un libro meraviglioso che in un certo senso mi ha dato il senso dell’eternità. Questo libro infatti è appartenuto a un collezionista americano molto conosciuto, Boies Penrose e quando l’ho avuto tra le mani, ho visto la dedica che aveva scritto lui di propria mano: “Questo libro ha accompagnato il suo possessore nel suo viaggio da Philadelphia e ha rifatto il viaggio all’inverso”, questo nel 1927. Ho pensato: ma quando questo libro è stato stampato, l’America non esisteva ancora, nessuno la conosceva.
Ecco, questo libro è stato pubblicato prima che si scoprisse l’America, è stato posseduto da molte persone, per finire finalmente tra le mie mani. Questo libro per me rappresenta la continuità, il senso dell’eredità. Non parlo di un’eredità fisica, ma umana. Ho avuto proprio il senso di appartenere all’umanità.
E’ ancora il libro più bello della mia collezione, ti dà anche un piacere fisico perché la carta antica non è fatta col legno bensì con la stoffa, con il lino, perciò non si sciupa. La carta del ’900 della fine dell’800 è una carta bruttissima, che si sbriciola…
Gli antiquari librai in genere sono persone estremamente appassionate, che hanno interesse ad insegnare a chi compra, a spiegare i dettagli. Io ho imparato molto dai librai. La maggior parte sono più che contenti di condividere la loro conoscenza. Ti fanno vedere i difetti di un libro e così poco per volta si impara, poi a volte si fanno comunque degli sbagli.
Ce ne accorgiamo ora che vogliamo vendere. Sì abbiamo deciso di vendere. Perché? La collezione è una cosa viva e dato che nessuno dei nostri figli ci si interessa in qualche modo, dobbiamo venderla perché resti viva. E poi bisogna venderla finché siamo capaci di occuparcene. Mio zio aveva una grande collezione di libri e ricordo che ripeteva: “Quando muoio vendete, non regalate la collezione a nessuno, perché i libri regalati non vengono apprezzati. Solo se uno li compra…”.

In generale cerco di andare in Israele tre volte l’anno, non sempre ce la faccio. Tra l’altro adesso sta diventando un problema, perché in aeroporto ho bisogno della seggiola a rotelle, non ce la faccio a percorrere quelle lunghe distanze.
Il fatto è che quando sono in Israele mi sento rivivere, è tutta un’altra cosa. Nonostante le rabbie che mi posso prendere, le discussioni contro il governo… Là ho ancora abbastanza amici con le “nostre” idee. Una delle mie più care amiche, 77 anni, è una delle signore di Machsom Watch, l’organizzazione che presidia i checkpoint. Ora è vedova ma continua a essere attiva. Ecco, lei era lì dall’inizio, è un pochino più giovane di me, ma nel ’47-48 era ad Haifa nel servizio telegrafico dell’Haganà. Ci sono ancora persone così…

Da quando sono venuta a vivere a Parigi mi sono sempre sentita in un certo senso traditrice verso Israele perciò non ho mai voluto lavorare in qualche organizzazione o ambasciata. La mia casa è sempre stata aperta per tutti gli israeliani che venivano. E tuttavia mi è rimasto questo senso di tradimento. Credo si possa capire. Solo quando mio figlio Daniel ha deciso di andare a studiare in Israele e, nonostante abbia la doppia nazionalità, ha scelto di fare il suo servizio militare, come tutti gli israeliani, e di vivere lì, mi sono messa l’anima in pace. Più o meno.



il babbo aveva fatto parte
dei famosi soldatini
del '99... aveva guadagnato
la croce
di guerra

Nel giardino degli zii Salmon a Firenze, con i cugini, aprile 1947
Paola col fratello Piero, Tel Aviv, 1945
Paola con la madre e i fratelli Gabriel, Bona e Lia, Tel Aviv 1946
Con i fratelli, 1944
Con Bertrand e i figli Daniel e Myriam, 1960