ITALIANCICH!

Nel 1927 il regime fascista varò un decreto
per l'italianizzazione dei cognomi della provincia
di Trieste che si riteneva fossero stati "slavizzati"
e per quelli di matrice straniera; i provvedimenti
di restituzione e riduzione e il ritardo con il quale
lo Stato rimediò al suo errore; la figura
di Aldo Pizzigalli. Intervista a Miro Tasso.

Miro Tasso, insegnante liceale, specialista nell’elaborazione di dati biodemografici in collaborazione con l’Università di Padova, ha realizzato varie analisi delle distribuzioni dei cognomi nelle popolazioni linguistico-onomastiche del Triveneto.
Ha recentemente scritto
Un onomasticidio di Stato, Mladika, Trieste 2010.
 
(intervista pubblicata su Una città n. 185, giugno 2011)

Nel­la se­con­da me­tà de­gli an­ni Ven­ti il re­gi­me fa­sci­sta im­po­se l’i­ta­lia­niz­za­zio­ne dei co­gno­mi nel­la cit­tà di Trie­ste e nel­la pro­vin­cia e poi suc­ces­si­va­men­te nel­le al­tre pro­vin­ce giu­lia­ne. Puoi rac­con­ta­re?
Pri­ma del re­gio de­cre­to per l’i­ta­lia­niz­za­zio­ne dei co­gno­mi nel­le pro­vin­ce giu­lia­ne, c’e­ra sta­to, nel 1926, un ana­lo­go de­cre­to per la pro­vin­cia di Tren­to, che ri­guar­da­va l’i­ta­lia­niz­za­zio­ne dei to­po­ni­mi, i no­mi di luo­go. Era sta­to Et­to­re To­lo­mei ne­gli an­ni Ven­ti a com­pie­re que­sta ope­ra­zio­ne. Non di­men­ti­chia­mo poi che già dal ’25 il fa­sci­smo ave­va ope­ra­to un’in­ten­sa cam­pa­gna di ita­lia­niz­za­zio­ne nei ter­ri­to­ri orien­ta­li. Ad esem­pio, era­no sta­te chiu­se tut­te le scuo­le in lin­gua slo­ve­na, che era­no nu­me­ro­se a Trie­ste, inol­tre la stes­sa sor­te toc­cò al­le so­cie­tà slo­ve­ne, al­cu­ne del­le qua­li fu­ro­no co­stret­te al­l’au­to­scio­gli­men­to per sal­va­re il ca­pi­ta­le so­cia­le pri­ma di ri­ce­ve­re l’or­di­ne de­fi­ni­ti­vo. I gior­na­li in lin­gua slo­ve­na era­no ob­bli­ga­ti ad ag­giun­ge­re una tra­du­zio­ne in ita­lia­no e nei tri­bu­na­li si do­ve­va usa­re so­lo la lin­gua na­zio­na­le. In que­st’a­rea fu­ro­no ita­lia­niz­za­ti i to­po­ni­mi con va­ria­zio­ni tal­vol­ta as­sur­de, co­me nel ca­so del Co­mu­ne di San Dor­li­go del­la Val­le, che og­gi è tor­na­to al­l’an­ti­co no­me di Do­li­na. Era sta­to im­po­sto an­che un esa­me di lin­gua ita­lia­na agli in­se­gnan­ti slo­ve­ni e, sic­co­me era ab­ba­stan­za dif­fi­ci­le, mol­tis­si­mi non lo pas­sa­ro­no, al­cu­ni pre­fe­ri­ro­no non so­ste­ne­re la pro­va, al­tri fu­ro­no co­stret­ti a emi­gra­re in Ju­go­sla­via, al di là del con­fi­ne, per­ché a Trie­ste non la­vo­ra­va­no più.Il de­cre­to per l’i­ta­lia­niz­za­zio­ne dei co­gno­mi è del 1927 e la sua at­tua­zio­ne, nel ca­so di Trie­ste, vie­ne af­fi­da­ta al pre­fet­to Bru­no For­na­cia­ri, un per­so­nag­gio ab­ba­stan­za no­to in que­gli an­ni, un fi­lo-nit­tia­no, quin­di non il fa­sci­sta clas­si­co. Tra pa­ren­te­si, pa­re che Mus­so­li­ni in­se­ris­se in cer­ti po­sti chia­ve, ti­po quel­li dei pre­fet­ti, an­che per­so­nag­gi che non era­no pro­prio di stret­ta fe­de fa­sci­sta. L’im­por­tan­te era che fos­se­ro uo­mi­ni di Sta­to e che quin­di ap­pli­cas­se­ro le leg­gi. For­na­cia­ri ave­va dun­que no­mi­na­to una com­mis­sio­ne com­po­sta di pro­fes­so­ri, lin­gui­sti, stu­dio­si di ono­ma­sti­ca, sto­ri­ci, a ca­po del­la qua­le c’e­ra il dot­tor Al­do Piz­za­gal­li, che fu il ve­ro ar­te­fi­ce del­l’o­pe­ra­zio­ne.Piz­za­gal­li era ori­gi­na­rio di Pe­sa­ro, ave­va stu­dia­to a Bo­lo­gna, poi si era lau­rea­to in giu­ri­spru­den­za a Ur­bi­no. Nel 1900, a 26 an­ni, era en­tra­to nel­la pub­bli­ca am­mi­ni­stra­zio­ne ed era sta­to man­da­to a la­vo­ra­re in pro­vin­cia di For­lì, do­ve era sta­to com­mis­sa­rio pre­fet­ti­zio in va­ri co­mu­ni, tra gli al­tri si ri­cor­da Pre­dap­pio. In Ro­ma­gna si era an­che spo­sa­to, con una pa­tri­zia for­li­ve­se, Eve­li­na Reg­gia­ni, da cui ave­va avu­to due fi­gli ma­schi, Et­to­re e En­zo. Nel 1919 era in­fi­ne sta­to man­da­to in mis­sio­ne a Trie­ste. Al­l’e­po­ca non c’e­ra an­co­ra la pre­fet­tu­ra, esi­ste­va il go­ver­na­to­ra­to. Lì si era su­bi­to di­stin­to per le sue do­ti di me­dia­zio­ne. In un pe­rio­do di gran­di scio­pe­ri ope­rai, era in­fat­ti riu­sci­to a sven­ta­re uno scio­pe­ro ai can­tie­ri di Mon­fal­co­ne (al­l’e­po­ca la pro­vin­cia di Trie­ste era mol­to più gran­de di quel­la at­tua­le, an­da­va da Gra­do fi­no a Po­stu­mia) e per que­sto ave­va ri­ce­vu­to un en­co­mio. Era an­che un uo­mo di cul­tu­ra, tan­to che pub­bli­cò di­ver­si li­bri in ver­si. Per il re­sto era il clas­si­co uo­mo ca­sa-fa­mi­glia-la­vo­ro. Piz­za­gal­li era sta­to no­mi­na­to pre­si­den­te del­la com­mis­sio­ne, per l’e­spe­rien­za, ma so­prat­tut­to per­ché non era un trie­sti­no.

I prov­ve­di­men­ti era­no due: uno di re­sti­tu­zio­ne, uno di ri­du­zio­ne. Puoi spie­ga­re?

Si trat­ta­va di due prov­ve­di­men­ti com­ple­men­ta­ri, che par­ti­va­no da as­sun­ti dif­fe­ren­ti. La “re­sti­tu­zio­ne” par­ti­va dal pre­sup­po­sto che in quel­le ter­re, si di­ce­va, i co­gno­mi era­no in ori­gi­ne di cep­po la­ti­no e poi era­no sta­ti sla­viz­za­ti da sa­cer­do­ti sla­vi aiz­za­ti dal go­ver­no au­stria­co. Ec­co per­ché bi­so­gna­va “re­sti­tuir­li” al­la for­ma originaria. In que­sto ca­so per lo più si trat­ta­va di cor­re­zio­ni gra­fi­che. Per esem­pio, se un co­gno­me fi­ni­va con la “ch”, co­me Be­ne­det­ti­ch, e lì ce ne so­no pa­rec­chi, di­ven­ta­va Be­ne­det­ti. In al­tri ca­si, si so­sti­tui­va la “k” con la “c”, per cui Fran­ce­skin di­ven­ta­va Fran­ce­schi­ni (non Fran­ce­schin, con­si­de­ra­ta for­ma dia­let­ta­le). An­co­ra, Ve­k­jet con la “kj”, di­ven­ta­va Vec­chiet. Ci fu­ro­no an­che tan­te tra­du­zio­ni. Il co­gno­me Vo­do­pi­vec, che de­ri­va da vo­da, che vuol di­re “ac­qua” e “pi­vec, “be­vi­to­re”, di­ven­tò Be­vi­lac­qua. Que­sto prov­ve­di­men­to ri­guar­dò ol­tre due­mi­la co­gno­mi nel so­lo co­mu­ne di Trie­ste. Pre­ci­so an­che che la re­sti­tu­zio­ne era un at­to che ve­ni­va fat­to d’uf­fi­cio, cioè uno non po­te­va sce­glie­re: se tu eri Be­ne­det­ti­ch, ti ve­ni­va co­mu­ni­ca­to che sa­re­sti di­ven­ta­vo Be­ne­det­ti, pun­to. Con­si­de­ra poi che il cam­bia­men­to ne­ces­si­ta­va di un de­cre­to fir­ma­to dal pre­fet­to.

Un de­cre­to per ogni co­gno­me?

Per ogni co­gno­me e per ogni per­so­na. Per­ché poi c’e­ra Car­lo Be­ne­det­ti­ch, Mar­co Be­ne­det­ti­ch, To­ni Be­ne­det­ti­ch e cia­scu­no do­ve­va ave­re il pro­prio de­cre­to. Qual­cu­no, an­che in pas­sa­to, ha so­ste­nu­to che que­sto non era un prov­ve­di­men­to ob­bli­ga­to­rio, per­ché ci so­no sta­ti ca­si di per­so­ne che pur aven­do un co­gno­me “stra­nie­ro” non ven­ne­ro in­ter­pel­la­te. Pe­rò si trat­ta­va per lo più di per­so­ne di po­te­re, o par­ti­co­lar­men­te no­te in cit­tà, al­le qua­li sem­pli­ce­men­te i fun­zio­na­ri non si era­no az­zar­da­ti a im­por­re il cam­bio del co­gno­me. Per di­re, Ful­vio Su­vi­ch, un av­vo­ca­to, di­ve­nu­to poi an­che am­ba­scia­to­re du­ran­te il fa­sci­smo, non cam­biò co­gno­me; co­sì i Co­su­li­ch, una fa­mi­glia di ar­ma­to­ri di Lus­sin Pic­co­lo (og­gi in Croa­zia) che ave­va­no pra­ti­ca­men­te crea­to i can­tie­ri na­va­li di Mon­fal­co­ne; ec­co, a lo­ro non l’han­no cam­bia­to. Pe­rò ai lo­ro omo­ni­mi po­ve­ri e sco­no­sciu­ti il co­gno­me l’han­no cam­bia­to ec­co­me.

Poi c’e­ra il prov­ve­di­men­to di ri­du­zio­ne…

Que­sto par­ti­va da un pre­sup­po­sto di­ver­so. Si di­ce­va: in que­ste ter­re ci so­no tan­te per­so­ne che han­no un co­gno­me di ma­tri­ce chia­ra­men­te stra­nie­ra per il qua­le non si può ipo­tiz­za­re l’o­ri­gi­ne la­ti­na, co­me può es­se­re il ca­so di Müller… per lo più si trat­ta­va di co­gno­mi te­de­schi op­pu­re slo­ve­ni, ma co­mun­que non di cep­po la­ti­no. Que­ste per­so­ne, es­sen­do cit­ta­di­ni del Re­gno, se vo­le­va­no po­te­va­no cam­bia­re co­gno­me, pe­rò do­ve­va­no fa­re do­man­da. La ri­du­zio­ne fun­zio­na­va co­sì: se Müller inol­tra­va la do­man­da, il pre­fet­to gli da­va un de­cre­to e Müller di­ven­ta­va Mo­li­na­ri. Il prov­ve­di­men­to di ri­du­zio­ne era ap­pa­ren­te­men­te li­be­ra­le. Lo stes­so Roc­co, quel­lo del fa­mo­so co­di­ce, ave­va emes­so una cir­co­la­re in cui chia­ri­va che non bi­so­gna­va ob­bli­ga­re le per­so­ne. Piz­za­gal­li era tut­ta­via di di­ver­sa opi­nio­ne: “Sì, Roc­co ha det­to che non bi­so­gna ob­bli­ga­re le per­so­ne, pe­rò si può cer­ca­re di con­vin­cer­le”. E co­sì era­no sta­ti mo­bi­li­ta­ti i gior­na­li, in pri­mis “il Pic­co­lo”, il quo­ti­dia­no di Trie­ste, in più le as­so­cia­zio­ni di par­ti­to, il do­po­la­vo­ro, i sin­da­ca­ti, il tut­to per per­sua­de­re la gen­te a cam­bia­re co­gno­me. No­no­stan­te que­sto di­spen­dio di ener­gie, in real­tà sem­bra che al­l’i­ni­zio le co­se an­das­se­ro un po’ a ri­len­to, al­la fi­ne pe­rò ne han­no “ri­dot­ti” pa­rec­chi. D’al­tra par­te, i di­pen­den­ti pub­bli­ci era­no pra­ti­ca­men­te co­stret­ti, ma an­che quel­li pri­va­ti, spe­cial­men­te se ap­par­te­ne­va­no a gran­di azien­de co­me quel­le del­le ce­le­bri as­si­cu­ra­zio­ni trie­sti­ne: se vo­le­va­no far car­rie­ra, do­ve­va­no cam­bia­re. Poi c’e­ra­no an­che per­so­ne che, o per piag­ge­ria, o per co­mo­do, o per con­vin­zio­ne, se lo cam­bia­va­no. Da un cer­to pun­to in poi era di­ven­ta­ta an­che una co­sa nor­ma­le.

Quan­te per­so­ne ha coin­vol­to que­sto prov­ve­di­men­to?

Piz­za­gal­li, as­su­men­do che ogni co­gno­me in me­dia cor­ri­spon­de a tot per­so­ne, ave­va cal­co­la­to che i co­gno­mi ita­lia­niz­za­ti do­ve­va­no ri­guar­da­re com­ples­si­va­men­te cir­ca 50.000 per­so­ne. Pao­lo Pa­ro­vel, che nel­l’85 ha pub­bli­ca­to L’i­den­ti­tà can­cel­la­ta. L’i­ta­lia­niz­za­zio­ne for­za­ta dei co­gno­mi, no­mi e to­po­ni­mi nel­la “Ve­ne­zia Giu­lia” dal 1919 al 1945, con gli elen­chi del­le pro­vin­ce di Trie­ste, Go­ri­zia, Istria ed i da­ti dei pri­mi 5.300 de­cre­ti, so­stie­ne che si è ar­ri­va­ti a 100.000. Ma­ri­no Bo­ni­fa­cio, stu­dio­so di ono­ma­sti­ca istria­na, nel vo­lu­me Co­gno­mi del­l’I­stria: sto­ria e dia­let­ti, con spe­cia­le ri­guar­do a Ro­vi­gno e Pi­ra­no, del 1997, è ri­tor­na­to sul nu­me­ro di 50.000. Pos­sia­mo per­tan­to ipo­tiz­za­re che a Trie­ste le per­so­ne coin­vol­te dal cam­bio del co­gno­me oscil­li­no tra i 50.000 e i 100.000. Per ave­re il nu­me­ro pre­ci­so bi­so­gne­reb­be an­da­re a con­ta­re i de­cre­ti uno per uno.

Il pro­ces­so di ita­lia­niz­za­zio­ne non era pro­prio li­nea­re. Puoi spie­ga­re?

Ca­pi­ta­va ad esem­pio che più co­gno­mi slo­ve­ni rien­tras­se­ro in un uni­co co­gno­me ita­lia­no. Per esem­pio Ve­k­jet e Ve­kiet (so­lo con la k), di­ven­ta­va­no en­tram­bi Vec­chiet. Ma an­che Starc, che in slo­ve­no vuol di­re “vec­chio, an­zia­no”, di­ven­ta­va ugual­men­te Vec­chiet.
Quin­di la for­ma ita­lia­na può con­te­ne­re più for­me slo­ve­ne, e non c’è sem­pre una cor­ri­spon­den­za uni­vo­ca. Suc­ce­de­va an­che il con­tra­rio, co­me il ca­so di una fa­mi­glia in cui quat­tro fra­tel­li ave­va­no as­sun­to quat­tro co­gno­mi di­ver­si. Que­sto ci spie­ga an­che le dif­fi­col­tà le­ga­te al ri­pri­sti­no del­la for­ma ori­gi­na­ria. Nel do­po­guer­ra mol­ti han­no chie­sto il ri­tor­no al­la for­ma ori­gi­na­ria, ma per ot­te­ner­lo oc­cor­re­va pre­sen­ta­re il de­cre­to al­l’uf­fi­cio ana­gra­fe.
Tan­ti pe­rò non ave­va­no più il de­cre­to, ma­ga­ri l’a­ve­va­no per­so e al­lo­ra si pre­sen­ta­va­no del­le dif­fi­col­tà.

Di­ce­vi che nel ‘38, con le leg­gi raz­zia­li, la si­tua­zio­ne si com­pli­ca, per­ché?

Le pra­ti­che di re­sti­tu­zio­ne, con la com­pi­la­zio­ne del­le li­ste, so­no du­ra­te ven­ti me­si, so­prat­tut­to per via dei tem­pi tec­ni­co-bu­ro­cra­ti­ci. Le do­man­de di ri­du­zio­ne, in­ve­ce, po­te­va­no es­se­re pre­sen­ta­te quan­do si vo­le­va, tan­t’è che pa­re sia­no con­ti­nua­te an­che nel cor­so de­gli an­ni Tren­ta, ad­di­rit­tu­ra si­no al­la fi­ne del­la guer­ra. Ec­co, nel ‘38, con l’in­tro­du­zio­ne del­le leg­gi raz­zia­li, al­la pre­fet­tu­ra di Trie­ste han­no ini­zia­to a in­ter­ro­gar­si su co­me pro­ce­de­re nei con­fron­ti de­gli ebrei, in­fat­ti chie­se­ro de­lu­ci­da­zio­ni an­che al Mi­ni­ste­ro, che pe­rò si li­mi­ta­va a di­re di pren­de­re tem­po. Fi­no a che non è ar­ri­va­ta una ri­spo­sta chia­ra: le do­man­de di ri­du­zio­ne non do­ve­va­no ave­re cor­so e an­zi an­da­va ri­pri­sti­na­ta la for­ma ori­gi­na­ria dei co­gno­mi cam­bia­ti. Mol­ti co­gno­mi ebrai­ci in­fat­ti so­no ri­co­no­sci­bi­li, co­me del re­sto quel­li re­gio­na­li ita­lia­ni, quin­di non si vo­le­va che fos­se­ro ca­muf­fa­ti.

La fi­gu­ra di Al­do Piz­za­gal­li è cen­tra­le nel­la tua ri­co­stru­zio­ne.

Io mi so­no fat­to l’i­dea che Piz­za­gal­li ab­bia rea­liz­za­to que­sta ope­ra­zio­ne pres­so­ché da so­lo, per­ché è ve­ro che c’e­ra la com­mis­sio­ne, ma era­no tan­te per­so­ne, gen­te im­pe­gna­ta, è dif­fi­ci­le pen­sa­re che si in­con­tras­se­ro…  se­con­do me si è mes­so lui a ta­vo­li­no e li ha ita­lia­niz­za­ti per­so­nal­men­te, con gran ze­lo. Nel 1929 ave­va an­che scrit­to un li­bro, Per l’i­ta­lia­ni­tà dei co­gno­mi nel­la pro­vin­cia di Trie­ste, una sor­ta di ma­nua­le, con una li­sta di co­gno­mi e le cor­ri­spon­den­ze, che do­ve­va ser­vi­re co­me mo­del­lo an­che per le al­tre pro­vin­ce giu­lia­ne. In quel­lo stes­so li­bro ave­va de­di­ca­to la par­te ini­zia­le a de­scri­ve­re l’i­ter se­gui­to.
Te­nia­mo pre­sen­te che Piz­za­gal­li si­cu­ra­men­te ave­va ac­cet­ta­to quel­l’im­pe­gno, non so­lo per­ché gli era sta­to or­di­na­to dal pre­fet­to o per amor pa­trio, ma an­che per­ché vo­le­va fa­re car­rie­ra. Nel­l’am­bien­te del­la pre­fet­tu­ra, al­l’e­po­ca, era ar­ri­va­to al mas­si­mo gra­do co­me con­si­glie­re. Tan­t’è che il pre­fet­to Et­to­re Por­ro, suc­ces­so­re di For­na­cia­ri, gli ave­va con­si­glia­to di par­te­ci­pa­re al con­cor­so per se­gre­ta­rio ge­ne­ra­le del co­mu­ne di Trie­ste, una ca­ri­ca ben re­mu­ne­ra­ta e ab­ba­stan­za pre­sti­gio­sa. Lui pe­rò, do­po aver inol­tra­to la do­man­da, l’a­ve­va ri­ti­ra­ta.
Era una per­so­na par­ti­co­la­re: si era con­vin­to che se si fos­se pre­sen­ta­to al con­cor­so l’a­vreb­be­ro boc­cia­to e quin­di per evi­ta­re l’u­mi­lia­zio­ne… Non so­lo, ave­va fat­to un espo­sto di ben 12 pa­gi­ne per de­nun­cia­re il fat­to che gli era sta­to con­si­glia­to di par­te­ci­pa­re quan­do era evi­den­te che i trie­sti­ni non avreb­be­ro mai vo­lu­to una per­so­na che non fos­se di Trie­ste, tan­to più che con la sto­ria dei co­gno­mi si era ini­mi­ca­to più di qual­cu­no. E di­re che al­la fi­ne quel con­cor­so lo vin­se un can­di­da­to ori­gi­na­rio di Fer­ra­ra!

Co­mun­que in quel­le pa­gi­ne, scrit­te a ma­no e fir­ma­te, ave­va fat­to una sin­te­si del­la sua vi­ta pro­fes­sio­na­le e per­so­na­le. è an­che gra­zie a que­sta do­cu­men­ta­zio­ne che ho po­tu­to ri­co­strui­re que­sta vi­cen­da.
A quel pun­to è ri­ma­sto in pre­fet­tu­ra e ha cer­ca­to di si­ste­ma­re i fi­gli, con il clas­si­co me­to­do del­le rac­co­man­da­zio­ni. Per il mi­no­re ha chie­sto al pre­fet­to. Ho pro­prio tro­va­to la let­te­ra scrit­ta. Per il fi­glio più vec­chio, l’oc­ca­sio­ne si è pre­sen­ta­ta quan­do una del­le fi­gu­re di­ri­gen­zia­li del­la Ras, un cer­to Schönstein, con un co­gno­me di evi­den­te ori­gi­ne te­de­sca, vo­le­va ac­ce­le­ra­re le pra­ti­che di ri­du­zio­ne. Sic­co­me pe­rò cir­co­la­va­no vo­ci su que­ste ma­no­vre, il pre­fet­to ha or­di­na­to un’in­da­gi­ne ri­ser­va­ta su Piz­za­gal­li, da cui era ap­pun­to ri­sul­ta­to che per far as­su­me­re il fi­glio ave­va fa­vo­ri­to le pra­ti­che di ita­lia­niz­za­zio­ne di que­sto Schönstein; stein vuol di­re “pie­tra”, schön “bel­lo” ed era di­ven­ta­to Bel­sas­so.
 Al­do Piz­za­gal­li ha poi con­ti­nua­to a la­vo­ra­re rag­giun­gen­do 44 an­ni di ser­vi­zio.
 A un cer­to pun­to si era an­che am­ma­la­to. Nel pe­rio­do bel­li­co ave­va chie­sto di ri­ce­ve­re le pra­ti­che di la­vo­ro a ca­sa per­ché non riu­sci­va più ad an­da­re in uf­fi­cio. Era un uo­mo ze­lan­te.
È mor­to uf­fi­cial­men­te per “neu­ra­ste­nia” nel 1944. Non cre­do sia sta­to per la que­stio­ne dei co­gno­mi, di cui an­zi pen­so fos­se or­go­glio­so. Bi­so­gna en­tra­re un po’ nel­l’ot­ti­ca del­l’e­po­ca: era­no con­vin­ti di fa­re co­se giu­ste per il nuo­vo mo­men­to sto­ri­co.
 A mor­te av­ve­nu­ta, a ben ve­de­re, ha su­bi­to un ul­ti­mo tor­to. Sul ne­cro­lo­gio del “Pic­co­lo”, in­fat­ti, c’e­ra la de­scri­zio­ne di quel­lo che ave­va fat­to, per­ché era or­mai un uo­mo no­to, tut­ta­via non si par­la­va mi­ni­ma­men­te del li­bro dei co­gno­mi, che in real­tà era la sua ope­ra prin­ci­pa­le. In quel mo­men­to, pe­rò, era in at­to l’oc­cu­pa­zio­ne na­zi­sta di Trie­ste e sic­co­me era­no sta­ti ita­lia­niz­za­ti an­che mol­ti co­gno­mi te­de­schi pro­ba­bil­men­te non si vo­le­va spa­zien­ti­re l’oc­cu­pan­te.

Di­ce­vi che lo Sta­to re­pub­bli­ca­no si è a lun­go di­men­ti­ca­to di ri­me­dia­re a que­sto tor­to su­bi­to da tan­ti suoi cit­ta­di­ni.

La pri­ma leg­ge che ha ga­ran­ti­to il ri­pri­sti­no del co­gno­me è ar­ri­va­ta ne­gli an­ni No­van­ta, esat­ta­men­te nel 1991, quin­di mol­to tar­di, for­se trop­po, per­ché poi quan­do pas­sa­no due o tre ge­ne­ra­zio­ni, i fi­gli, i ni­po­ti, non so­no più co­sì in­te­res­sa­ti al ri­pri­sti­no del co­gno­me ori­gi­na­rio dei lo­ro avi. Per cui, al­la fi­ne, quel­l’o­pe­ra­zio­ne ha al­te­ra­to la strut­tu­ra ono­ma­sti­ca di quel­la re­gio­ne.
Per fa­re un esem­pio, il mio edi­to­re, Ma­ver, era di­ven­ta­to Mau­ri, ma ave­va an­co­ra il de­cre­to e quin­di ha chie­sto di tor­na­re al vec­chio co­gno­me e co­sì han­no fat­to in tan­ti. Pe­rò al­tri non han­no se­gui­to que­sta stra­da. è co­mun­que dif­fi­ci­le ri­sa­li­re al­le per­cen­tua­li di chi è tor­na­to al suo co­gno­me e chi no. Qual­co­sa so­no riu­sci­to a in­tui­re nel cor­so di una ri­cer­ca che ho svol­to al­l’U­ni­ver­si­tà per la ri­vi­sta scien­ti­fi­ca ame­ri­ca­na Hu­man Bio­lo­gy e che sa­rà pub­bli­ca­ta nel me­se di giu­gno 2011.

Ma co­me si fa a stu­dia­re i co­gno­mi? Vi ri­vol­ge­te al­le ana­gra­fi?

No, le ri­cer­che sui co­gno­mi ge­ne­ral­men­te si fan­no stu­dian­do gli elen­chi te­le­fo­ni­ci. Ab­bia­mo mes­so a con­fron­to gli ab­bo­na­ti al te­le­fo­no -le per­so­ne fi­si­che, non le dit­te- dei co­mu­ni ita­lia­ni slo­ve­no­fo­ni, che van­no da Udi­ne a Trie­ste, dei co­mu­ni slo­ve­ni ex ita­lia­ni, co­me Ca­po­ret­to (quel­li dal­l’al­tra par­te del con­fi­ne) e quel­li friu­la­ni li­mi­tro­fi con quel­li slo­ve­no­fo­ni. Esi­sto­no de­gli in­di­ci che sti­ma­no la si­mi­la­ri­tà tra co­mu­ni, cioè con una par­ti­co­la­re for­mu­la ri­ca­vi dei nu­me­ri e del­le rap­pre­sen­ta­zio­ni gra­fi­che: se ot­tie­ni due pun­ti vi­ci­ni, vuol di­re che i due co­mu­ni so­no si­mi­li.
Ab­bia­mo svol­to que­sta ope­ra­zio­ne con gli elen­chi at­tua­li e poi ab­bia­mo pro­va­to a ri­pri­sti­na­re i co­gno­mi ita­lia­ni nel­la for­ma ori­gi­na­ria slo­ve­na. L’ab­bia­mo fat­to con 1660 co­gno­mi; si trat­ta di un’in­da­gi­ne li­mi­ta­ta e un po’ roz­za per­ché mol­ti co­gno­mi non ci so­no più, ol­tre al fat­to che un Be­vi­lac­qua può es­se­re sem­pre sta­to Be­vi­lac­qua e non Vo­do­pi­vec. Co­mun­que, nel­l’am­bi­to di que­sta ri­cer­ca ab­bia­mo ri­scon­tra­to una cer­ta si­mi­la­ri­tà fra co­mu­ni che se­gna­la che pro­ba­bil­men­te mol­ti so­no già tor­na­ti da tem­po al­la for­ma ori­gi­na­ria slo­ve­na.

Que­sti prov­ve­di­men­ti non so­no sco­no­sciu­ti nel­le re­gio­ni di con­fi­ne. Ad esem­pio, se tu vai in Val Gar­de­na, Val Ba­dia e Ma­reb­be, tut­ti par­la­no la­di­no, ne va­lo­riz­za­no -an­che per un di­scor­so tu­ri­sti­co- gli usi, i co­stu­mi, le tra­di­zio­ni, la cu­ci­na la­di­na, pe­rò non tro­vi un co­gno­me la­di­no: so­no tut­ti o te­de­schi o ita­lia­ni. In Val Gar­de­na e nel­le Val­li Ba­dia-Ma­reb­be so­no te­de­schi; in Val di Fas­sa, che è Tren­ti­no, so­no ita­lia­ni e co­sì pu­re nel­l’a­rea del­l’Am­pez­za­no e del Bel­lu­ne­se in ge­ne­re.
 Tut­ta­via i co­gno­mi la­di­ni esi­sto­no ec­co­me, tan­to che in stu­di con­dot­ti agli ini­zi del No­ve­cen­to si par­la pro­prio di co­gno­mi la­di­ni. Per­ché non li tro­vi più? Per­ché nel­l’Ot­to­cen­to i par­ro­ci che ve­ni­va­no man­da­ti in que­ste zo­ne o era­no ger­ma­no­fo­ni o era­no ita­lo­fo­ni, per cui nes­su­no riu­sci­va a scri­ve­re un co­gno­me la­di­no nel­la for­ma ori­gi­na­ria (an­che per­ché non esi­ste­va una lin­gua scrit­ta, del­le re­go­le) e co­sì, se il par­ro­co era te­de­sco lo adat­ta­va al­la lin­gua te­de­sca, se era ita­lia­no lo adat­ta­va al­la lin­gua ita­lia­na. In que­sto mo­do quei co­gno­mi so­no pra­ti­ca­men­te scom­par­si nei re­gi­stri dei bat­te­si­mi, dei mor­ti e dei ma­tri­mo­ni.
Quin­di que­ste ope­ra­zio­ni ci so­no sem­pre sta­te, pe­rò non si trat­ta­va di un di­se­gno pre­or­di­na­to. Quel­lo che si è ve­ri­fi­ca­to nel No­ve­cen­to a Trie­ste e nel­le ter­re giu­lia­ne fu in­ve­ce il frut­to di un pro­get­to im­po­sto dal­l’al­to, un’a­zio­ne si­ste­ma­ti­ca mes­sa in pra­ti­ca da uno Sta­to nei con­fron­ti dei suoi cit­ta­di­ni.

Ma il fat­to di “per­de­re” dei co­gno­mi co­sa si­gni­fi­ca?

Il co­gno­me non è so­lo l’e­ti­chet­ta che ti por­ti die­tro per sco­pi am­mi­ni­stra­ti­vi. Il co­gno­me ri­flet­te la sto­ria, la cul­tu­ra, l’i­den­ti­tà, sia nel sen­so ge­nea­lo­gi­co, ma an­che in ter­mi­ni di stir­pe, di ori­gi­ni. La pre­sen­za di de­ter­mi­na­ti co­gno­mi è an­che l’e­spres­sio­ne cul­tu­ra­le di quel­l’a­rea. Quin­di cam­bia­re i co­gno­mi si­gni­fi­ca al­te­ra­re un se­gno iden­ti­fi­ca­ti­vo che è ric­co di in­for­ma­zio­ni, ol­tre che fa­mi­lia­ri e ge­nea­lo­gi­che, an­che sto­ri­co-cul­tu­ra­li.
Ec­co, il fa­sci­smo è an­da­to a in­tac­ca­re que­sto ele­men­to, ita­lia­niz­zan­do a for­za po­po­la­zio­ni che si­cu­ra­men­te non era­no en­tu­sia­ste di rien­tra­re in que­sto di­se­gno.
è una del­le tan­te ne­fan­dez­ze del fa­sci­smo, non la più gra­ve, nel sen­so che non è mor­to nes­su­no, pe­rò ha la­scia­to dei se­gni -cioè i co­gno­mi al­te­ra­ti nel­le for­me- che si so­no man­te­nu­ti nel tem­po.
La co­sa cu­rio­sa, inol­tre, è che que­sto prov­ve­di­men­to ha coin­vol­to le pro­vin­ce giu­lia­ne, Trie­ste e Go­ri­zia, la pro­vin­cia del­l’I­stria, cioè Po­la, la pro­vin­cia del Car­na­ro, che era Fiu­me, e la pro­vin­cia di Za­ra. La pro­vin­cia di Udi­ne, in­ve­ce, pur pre­sen­tan­do co­gno­mi scrit­ti in for­ma slo­ve­na, non è sta­ta in­te­res­sa­ta da que­sto prov­ve­di­men­to. O me­glio, se tu chie­de­vi, ot­te­ne­vi la ri­du­zio­ne, pe­rò non c’è sta­ta l’ap­pli­ca­zio­ne d’uf­fi­cio. Per­ché? Per­ché quei ter­ri­to­ri era­no ita­lia­ni dal 1866, quin­di non era­no re­gio­ni re­den­te da po­co, ol­tre al fat­to che era­no an­che zo­ne scar­sa­men­te po­po­la­te, un po’ de­pres­se dal pun­to di vi­sta so­cio-eco­no­mi­co. Di con­se­guen­za ci so­no sta­ti an­che due pe­si e due mi­su­re. Era an­che una que­stio­ne sim­bo­li­ca, di po­te­re.

Ma l’im­po­si­zio­ne di un nuo­vo co­gno­me com’e­ra vis­su­ta nel­le fa­mi­glie, c’è sta­to qual­cu­no che ha fat­to re­si­sten­za?

Pa­ro­vel, nel suo li­bro, ci­ta tra gli al­tri il ca­so di un fer­ro­vie­re che, no­no­stan­te fos­se un di­pen­den­te pub­bli­co, non ne vo­le­va sa­pe­re di cam­bia­re il pro­prio co­gno­me. Quin­di del­le “re­si­sten­ze” ci so­no sta­te. D’al­tra par­te il fat­to stes­so che l’o­pe­ra­zio­ne di ri­du­zio­ne al­l’i­ni­zio an­das­se mol­to a ri­len­to ci di­ce qual­co­sa. Per la re­sti­tu­zio­ne è dif­fi­ci­le fa­re con­get­tu­re per­ché ve­ni­va fat­ta d’uf­fi­cio.
Ri­guar­do a co­me lo vi­ve­va­no le fa­mi­glie per­so­nal­men­te, ne ho par­la­to con Pa­vle Mer­kù, com­po­si­to­re e lin­gui­sta di ori­gi­ne slo­ve­na. Lui mi rac­con­ta­va che ad­di­rit­tu­ra a suo pa­dre ave­va­no im­po­sto la “c” al po­sto del­la “k” sen­za nem­me­no il de­cre­to pre­fet­ti­zio. Cioè in Co­mu­ne, sen­za nean­che for­ma­liz­zar­lo, ave­va­no de­ci­so: “To­glia­mo la k e met­tia­mo la c”. Suo pa­dre l’a­ve­va pre­sa mol­to ma­le ov­via­men­te. I fi­gli, nel do­po­guer­ra, si so­no mo­bi­li­ta­ti per ri­pri­sti­na­re il vec­chio co­gno­me tra­mi­te un av­vo­ca­to, esi­ben­do i cer­ti­fi­ca­ti ori­gi­na­li di bat­te­si­mo, ma il pa­dre non ha vo­lu­to. Di­ce­va: “è lo Sta­to che mi ha tol­to il co­gno­me, de­v’es­se­re lo Sta­to a ri­dar­me­lo”. Lo Sta­to, pur­trop­po, si è mos­so quan­do era già mor­to.
è quin­di fa­ci­le im­ma­gi­na­re che sia­no sta­ti in mol­ti a pa­ti­re quel­l’im­po­si­zio­ne. Non ci so­no pe­rò cro­na­che di co­me han­no rea­gi­to le sin­go­le fa­mi­glie. Trie­ste è sem­pre sta­ta una cit­tà con una for­te com­po­nen­te slo­ve­na, per non par­la­re del­l’en­tro­ter­ra, che era tut­to slo­ve­no.
Non sap­pia­mo co­me l’ab­bia­no pre­sa i con­ta­di­ni, che ca­so­mai do­ve­va­no in­nan­zi­tut­to ti­ra­re a cam­pa­re, in­ve­ce nel­le cit­tà i di­pen­den­ti pub­bli­ci non ave­va­no mol­ta scel­ta, per­ché ma­ga­ri non ci sa­reb­be sta­to il li­cen­zia­men­to, ma cer­to non avreb­be­ro avu­to vi­ta fa­ci­le.
In mez­zo ai dram­mi, ci so­no sta­te an­che si­tua­zio­ni tra­gi­co­mi­che, co­me quel­la del dot­tor Sla­vi­ch. Co­stui, a ri­go­re, rien­tra­va nel­la ri­du­zio­ne, ma era un pro­fes­sio­ni­sta ab­ba­stan­za co­no­sciu­to a Trie­ste, per cui quan­do i fun­zio­na­ri gli chie­se­ro se aves­se in­ten­zio­ne di re­go­la­riz­za­re la sua po­si­zio­ne, lui ri­spo­se: “Cer­ta­men­te, co­me tut­ti i buo­ni cit­ta­di­ni ita­lia­ni”, “E qua­le co­gno­me de­si­de­ra as­su­me­re?”, “Ita­lian­ci­ch!”. 


il cognome "Vodopivec", che deriva
da "voda", acqua, e "pivec", bevitore, diventò Bevilacqua

Pizzigalli aveva calcolato
che i cognomi italianizati dovevano riguardare
in tutto circa 50.000 persone

cambiare
i cognomi significa alterare un segno identificativo ricco di informazioni: familiari, genealogiche, storico-culturali

"è lo Stato che mi ha tolto il cognome, dev'essere lo Stato a ridarmelo". Lo Stato, purtroppo, si è mosso quando era già morto