
Nel 1927 il regime fascista varò un decreto
per l'italianizzazione dei cognomi della provincia
di Trieste che si riteneva fossero stati "slavizzati"
e per quelli di matrice straniera; i provvedimenti
di restituzione e riduzione e il ritardo con il quale
lo Stato rimediò al suo errore; la figura
di Aldo Pizzigalli. Intervista a Miro Tasso.
Ha recentemente scritto Un onomasticidio di Stato, Mladika, Trieste 2010.
Nella seconda metà degli anni Venti il regime fascista impose l’italianizzazione dei cognomi nella città di Trieste e nella provincia e poi successivamente nelle altre province giuliane. Puoi raccontare?
Prima del regio decreto per l’italianizzazione dei cognomi nelle province giuliane, c’era stato, nel 1926, un analogo decreto per la provincia di Trento, che riguardava l’italianizzazione dei toponimi, i nomi di luogo. Era stato Ettore Tolomei negli anni Venti a compiere questa operazione. Non dimentichiamo poi che già dal ’25 il fascismo aveva operato un’intensa campagna di italianizzazione nei territori orientali. Ad esempio, erano state chiuse tutte le scuole in lingua slovena, che erano numerose a Trieste, inoltre la stessa sorte toccò alle società slovene, alcune delle quali furono costrette all’autoscioglimento per salvare il capitale sociale prima di ricevere l’ordine definitivo. I giornali in lingua slovena erano obbligati ad aggiungere una traduzione in italiano e nei tribunali si doveva usare solo la lingua nazionale. In quest’area furono italianizzati i toponimi con variazioni talvolta assurde, come nel caso del Comune di San Dorligo della Valle, che oggi è tornato all’antico nome di Dolina. Era stato imposto anche un esame di lingua italiana agli insegnanti sloveni e, siccome era abbastanza difficile, moltissimi non lo passarono, alcuni preferirono non sostenere la prova, altri furono costretti a emigrare in Jugoslavia, al di là del confine, perché a Trieste non lavoravano più.Il decreto per l’italianizzazione dei cognomi è del 1927 e la sua attuazione, nel caso di Trieste, viene affidata al prefetto Bruno Fornaciari, un personaggio abbastanza noto in quegli anni, un filo-nittiano, quindi non il fascista classico. Tra parentesi, pare che Mussolini inserisse in certi posti chiave, tipo quelli dei prefetti, anche personaggi che non erano proprio di stretta fede fascista. L’importante era che fossero uomini di Stato e che quindi applicassero le leggi. Fornaciari aveva dunque nominato una commissione composta di professori, linguisti, studiosi di onomastica, storici, a capo della quale c’era il dottor Aldo Pizzagalli, che fu il vero artefice dell’operazione.Pizzagalli era originario di Pesaro, aveva studiato a Bologna, poi si era laureato in giurisprudenza a Urbino. Nel 1900, a 26 anni, era entrato nella pubblica amministrazione ed era stato mandato a lavorare in provincia di Forlì, dove era stato commissario prefettizio in vari comuni, tra gli altri si ricorda Predappio. In Romagna si era anche sposato, con una patrizia forlivese, Evelina Reggiani, da cui aveva avuto due figli maschi, Ettore e Enzo. Nel 1919 era infine stato mandato in missione a Trieste. All’epoca non c’era ancora la prefettura, esisteva il governatorato. Lì si era subito distinto per le sue doti di mediazione. In un periodo di grandi scioperi operai, era infatti riuscito a sventare uno sciopero ai cantieri di Monfalcone (all’epoca la provincia di Trieste era molto più grande di quella attuale, andava da Grado fino a Postumia) e per questo aveva ricevuto un encomio. Era anche un uomo di cultura, tanto che pubblicò diversi libri in versi. Per il resto era il classico uomo casa-famiglia-lavoro. Pizzagalli era stato nominato presidente della commissione, per l’esperienza, ma soprattutto perché non era un triestino.
I provvedimenti erano due: uno di restituzione, uno di riduzione. Puoi spiegare?
Si trattava di due provvedimenti complementari, che partivano da assunti differenti. La “restituzione” partiva dal presupposto che in quelle terre, si diceva, i cognomi erano in origine di ceppo latino e poi erano stati slavizzati da sacerdoti slavi aizzati dal governo austriaco. Ecco perché bisognava “restituirli” alla forma originaria. In questo caso per lo più si trattava di correzioni grafiche. Per esempio, se un cognome finiva con la “ch”, come Benedettich, e lì ce ne sono parecchi, diventava Benedetti. In altri casi, si sostituiva la “k” con la “c”, per cui Franceskin diventava Franceschini (non Franceschin, considerata forma dialettale). Ancora, Vekjet con la “kj”, diventava Vecchiet. Ci furono anche tante traduzioni. Il cognome Vodopivec, che deriva da voda, che vuol dire “acqua” e “pivec, “bevitore”, diventò Bevilacqua. Questo provvedimento riguardò oltre duemila cognomi nel solo comune di Trieste. Preciso anche che la restituzione era un atto che veniva fatto d’ufficio, cioè uno non poteva scegliere: se tu eri Benedettich, ti veniva comunicato che saresti diventavo Benedetti, punto. Considera poi che il cambiamento necessitava di un decreto firmato dal prefetto.
Un decreto per ogni cognome?
Per ogni cognome e per ogni persona. Perché poi c’era Carlo Benedettich, Marco Benedettich, Toni Benedettich e ciascuno doveva avere il proprio decreto. Qualcuno, anche in passato, ha sostenuto che questo non era un provvedimento obbligatorio, perché ci sono stati casi di persone che pur avendo un cognome “straniero” non vennero interpellate. Però si trattava per lo più di persone di potere, o particolarmente note in città, alle quali semplicemente i funzionari non si erano azzardati a imporre il cambio del cognome. Per dire, Fulvio Suvich, un avvocato, divenuto poi anche ambasciatore durante il fascismo, non cambiò cognome; così i Cosulich, una famiglia di armatori di Lussin Piccolo (oggi in Croazia) che avevano praticamente creato i cantieri navali di Monfalcone; ecco, a loro non l’hanno cambiato. Però ai loro omonimi poveri e sconosciuti il cognome l’hanno cambiato eccome.
Poi c’era il provvedimento di riduzione…
Questo partiva da un presupposto diverso. Si diceva: in queste terre ci sono tante persone che hanno un cognome di matrice chiaramente straniera per il quale non si può ipotizzare l’origine latina, come può essere il caso di Müller… per lo più si trattava di cognomi tedeschi oppure sloveni, ma comunque non di ceppo latino. Queste persone, essendo cittadini del Regno, se volevano potevano cambiare cognome, però dovevano fare domanda. La riduzione funzionava così: se Müller inoltrava la domanda, il prefetto gli dava un decreto e Müller diventava Molinari. Il provvedimento di riduzione era apparentemente liberale. Lo stesso Rocco, quello del famoso codice, aveva emesso una circolare in cui chiariva che non bisognava obbligare le persone. Pizzagalli era tuttavia di diversa opinione: “Sì, Rocco ha detto che non bisogna obbligare le persone, però si può cercare di convincerle”. E così erano stati mobilitati i giornali, in primis “il Piccolo”, il quotidiano di Trieste, in più le associazioni di partito, il dopolavoro, i sindacati, il tutto per persuadere la gente a cambiare cognome. Nonostante questo dispendio di energie, in realtà sembra che all’inizio le cose andassero un po’ a rilento, alla fine però ne hanno “ridotti” parecchi. D’altra parte, i dipendenti pubblici erano praticamente costretti, ma anche quelli privati, specialmente se appartenevano a grandi aziende come quelle delle celebri assicurazioni triestine: se volevano far carriera, dovevano cambiare. Poi c’erano anche persone che, o per piaggeria, o per comodo, o per convinzione, se lo cambiavano. Da un certo punto in poi era diventata anche una cosa normale.
Quante persone ha coinvolto questo provvedimento?
Pizzagalli, assumendo che ogni cognome in media corrisponde a tot persone, aveva calcolato che i cognomi italianizzati dovevano riguardare complessivamente circa 50.000 persone. Paolo Parovel, che nell’85 ha pubblicato L’identità cancellata. L’italianizzazione forzata dei cognomi, nomi e toponimi nella “Venezia Giulia” dal 1919 al 1945, con gli elenchi delle province di Trieste, Gorizia, Istria ed i dati dei primi 5.300 decreti, sostiene che si è arrivati a 100.000. Marino Bonifacio, studioso di onomastica istriana, nel volume Cognomi dell’Istria: storia e dialetti, con speciale riguardo a Rovigno e Pirano, del 1997, è ritornato sul numero di 50.000. Possiamo pertanto ipotizzare che a Trieste le persone coinvolte dal cambio del cognome oscillino tra i 50.000 e i 100.000. Per avere il numero preciso bisognerebbe andare a contare i decreti uno per uno.
Il processo di italianizzazione non era proprio lineare. Puoi spiegare?
Capitava ad esempio che più cognomi sloveni rientrassero in un unico cognome italiano. Per esempio Vekjet e Vekiet (solo con la k), diventavano entrambi Vecchiet. Ma anche Starc, che in sloveno vuol dire “vecchio, anziano”, diventava ugualmente Vecchiet.
Quindi la forma italiana può contenere più forme slovene, e non c’è sempre una corrispondenza univoca. Succedeva anche il contrario, come il caso di una famiglia in cui quattro fratelli avevano assunto quattro cognomi diversi. Questo ci spiega anche le difficoltà legate al ripristino della forma originaria. Nel dopoguerra molti hanno chiesto il ritorno alla forma originaria, ma per ottenerlo occorreva presentare il decreto all’ufficio anagrafe.
Tanti però non avevano più il decreto, magari l’avevano perso e allora si presentavano delle difficoltà.
Dicevi che nel ‘38, con le leggi razziali, la situazione si complica, perché?
Le pratiche di restituzione, con la compilazione delle liste, sono durate venti mesi, soprattutto per via dei tempi tecnico-burocratici. Le domande di riduzione, invece, potevano essere presentate quando si voleva, tant’è che pare siano continuate anche nel corso degli anni Trenta, addirittura sino alla fine della guerra. Ecco, nel ‘38, con l’introduzione delle leggi razziali, alla prefettura di Trieste hanno iniziato a interrogarsi su come procedere nei confronti degli ebrei, infatti chiesero delucidazioni anche al Ministero, che però si limitava a dire di prendere tempo. Fino a che non è arrivata una risposta chiara: le domande di riduzione non dovevano avere corso e anzi andava ripristinata la forma originaria dei cognomi cambiati. Molti cognomi ebraici infatti sono riconoscibili, come del resto quelli regionali italiani, quindi non si voleva che fossero camuffati.
La figura di Aldo Pizzagalli è centrale nella tua ricostruzione.
Io mi sono fatto l’idea che Pizzagalli abbia realizzato questa operazione pressoché da solo, perché è vero che c’era la commissione, ma erano tante persone, gente impegnata, è difficile pensare che si incontrassero… secondo me si è messo lui a tavolino e li ha italianizzati personalmente, con gran zelo. Nel 1929 aveva anche scritto un libro, Per l’italianità dei cognomi nella provincia di Trieste, una sorta di manuale, con una lista di cognomi e le corrispondenze, che doveva servire come modello anche per le altre province giuliane. In quello stesso libro aveva dedicato la parte iniziale a descrivere l’iter seguito.
Teniamo presente che Pizzagalli sicuramente aveva accettato quell’impegno, non solo perché gli era stato ordinato dal prefetto o per amor patrio, ma anche perché voleva fare carriera. Nell’ambiente della prefettura, all’epoca, era arrivato al massimo grado come consigliere. Tant’è che il prefetto Ettore Porro, successore di Fornaciari, gli aveva consigliato di partecipare al concorso per segretario generale del comune di Trieste, una carica ben remunerata e abbastanza prestigiosa. Lui però, dopo aver inoltrato la domanda, l’aveva ritirata.
Era una persona particolare: si era convinto che se si fosse presentato al concorso l’avrebbero bocciato e quindi per evitare l’umiliazione… Non solo, aveva fatto un esposto di ben 12 pagine per denunciare il fatto che gli era stato consigliato di partecipare quando era evidente che i triestini non avrebbero mai voluto una persona che non fosse di Trieste, tanto più che con la storia dei cognomi si era inimicato più di qualcuno. E dire che alla fine quel concorso lo vinse un candidato originario di Ferrara!
Comunque in quelle pagine, scritte a mano e firmate, aveva fatto una sintesi della sua vita professionale e personale. è anche grazie a questa documentazione che ho potuto ricostruire questa vicenda.
A quel punto è rimasto in prefettura e ha cercato di sistemare i figli, con il classico metodo delle raccomandazioni. Per il minore ha chiesto al prefetto. Ho proprio trovato la lettera scritta. Per il figlio più vecchio, l’occasione si è presentata quando una delle figure dirigenziali della Ras, un certo Schönstein, con un cognome di evidente origine tedesca, voleva accelerare le pratiche di riduzione. Siccome però circolavano voci su queste manovre, il prefetto ha ordinato un’indagine riservata su Pizzagalli, da cui era appunto risultato che per far assumere il figlio aveva favorito le pratiche di italianizzazione di questo Schönstein; stein vuol dire “pietra”, schön “bello” ed era diventato Belsasso.
Aldo Pizzagalli ha poi continuato a lavorare raggiungendo 44 anni di servizio.
A un certo punto si era anche ammalato. Nel periodo bellico aveva chiesto di ricevere le pratiche di lavoro a casa perché non riusciva più ad andare in ufficio. Era un uomo zelante.
È morto ufficialmente per “neurastenia” nel 1944. Non credo sia stato per la questione dei cognomi, di cui anzi penso fosse orgoglioso. Bisogna entrare un po’ nell’ottica dell’epoca: erano convinti di fare cose giuste per il nuovo momento storico.
A morte avvenuta, a ben vedere, ha subito un ultimo torto. Sul necrologio del “Piccolo”, infatti, c’era la descrizione di quello che aveva fatto, perché era ormai un uomo noto, tuttavia non si parlava minimamente del libro dei cognomi, che in realtà era la sua opera principale. In quel momento, però, era in atto l’occupazione nazista di Trieste e siccome erano stati italianizzati anche molti cognomi tedeschi probabilmente non si voleva spazientire l’occupante.
Dicevi che lo Stato repubblicano si è a lungo dimenticato di rimediare a questo torto subito da tanti suoi cittadini.
La prima legge che ha garantito il ripristino del cognome è arrivata negli anni Novanta, esattamente nel 1991, quindi molto tardi, forse troppo, perché poi quando passano due o tre generazioni, i figli, i nipoti, non sono più così interessati al ripristino del cognome originario dei loro avi. Per cui, alla fine, quell’operazione ha alterato la struttura onomastica di quella regione.
Per fare un esempio, il mio editore, Maver, era diventato Mauri, ma aveva ancora il decreto e quindi ha chiesto di tornare al vecchio cognome e così hanno fatto in tanti. Però altri non hanno seguito questa strada. è comunque difficile risalire alle percentuali di chi è tornato al suo cognome e chi no. Qualcosa sono riuscito a intuire nel corso di una ricerca che ho svolto all’Università per la rivista scientifica americana Human Biology e che sarà pubblicata nel mese di giugno 2011.
Ma come si fa a studiare i cognomi? Vi rivolgete alle anagrafi?
No, le ricerche sui cognomi generalmente si fanno studiando gli elenchi telefonici. Abbiamo messo a confronto gli abbonati al telefono -le persone fisiche, non le ditte- dei comuni italiani slovenofoni, che vanno da Udine a Trieste, dei comuni sloveni ex italiani, come Caporetto (quelli dall’altra parte del confine) e quelli friulani limitrofi con quelli slovenofoni. Esistono degli indici che stimano la similarità tra comuni, cioè con una particolare formula ricavi dei numeri e delle rappresentazioni grafiche: se ottieni due punti vicini, vuol dire che i due comuni sono simili.
Abbiamo svolto questa operazione con gli elenchi attuali e poi abbiamo provato a ripristinare i cognomi italiani nella forma originaria slovena. L’abbiamo fatto con 1660 cognomi; si tratta di un’indagine limitata e un po’ rozza perché molti cognomi non ci sono più, oltre al fatto che un Bevilacqua può essere sempre stato Bevilacqua e non Vodopivec. Comunque, nell’ambito di questa ricerca abbiamo riscontrato una certa similarità fra comuni che segnala che probabilmente molti sono già tornati da tempo alla forma originaria slovena.
Questi provvedimenti non sono sconosciuti nelle regioni di confine. Ad esempio, se tu vai in Val Gardena, Val Badia e Marebbe, tutti parlano ladino, ne valorizzano -anche per un discorso turistico- gli usi, i costumi, le tradizioni, la cucina ladina, però non trovi un cognome ladino: sono tutti o tedeschi o italiani. In Val Gardena e nelle Valli Badia-Marebbe sono tedeschi; in Val di Fassa, che è Trentino, sono italiani e così pure nell’area dell’Ampezzano e del Bellunese in genere.
Tuttavia i cognomi ladini esistono eccome, tanto che in studi condotti agli inizi del Novecento si parla proprio di cognomi ladini. Perché non li trovi più? Perché nell’Ottocento i parroci che venivano mandati in queste zone o erano germanofoni o erano italofoni, per cui nessuno riusciva a scrivere un cognome ladino nella forma originaria (anche perché non esisteva una lingua scritta, delle regole) e così, se il parroco era tedesco lo adattava alla lingua tedesca, se era italiano lo adattava alla lingua italiana. In questo modo quei cognomi sono praticamente scomparsi nei registri dei battesimi, dei morti e dei matrimoni.
Quindi queste operazioni ci sono sempre state, però non si trattava di un disegno preordinato. Quello che si è verificato nel Novecento a Trieste e nelle terre giuliane fu invece il frutto di un progetto imposto dall’alto, un’azione sistematica messa in pratica da uno Stato nei confronti dei suoi cittadini.
Ma il fatto di “perdere” dei cognomi cosa significa?
Il cognome non è solo l’etichetta che ti porti dietro per scopi amministrativi. Il cognome riflette la storia, la cultura, l’identità, sia nel senso genealogico, ma anche in termini di stirpe, di origini. La presenza di determinati cognomi è anche l’espressione culturale di quell’area. Quindi cambiare i cognomi significa alterare un segno identificativo che è ricco di informazioni, oltre che familiari e genealogiche, anche storico-culturali.
Ecco, il fascismo è andato a intaccare questo elemento, italianizzando a forza popolazioni che sicuramente non erano entusiaste di rientrare in questo disegno.
è una delle tante nefandezze del fascismo, non la più grave, nel senso che non è morto nessuno, però ha lasciato dei segni -cioè i cognomi alterati nelle forme- che si sono mantenuti nel tempo.
La cosa curiosa, inoltre, è che questo provvedimento ha coinvolto le province giuliane, Trieste e Gorizia, la provincia dell’Istria, cioè Pola, la provincia del Carnaro, che era Fiume, e la provincia di Zara. La provincia di Udine, invece, pur presentando cognomi scritti in forma slovena, non è stata interessata da questo provvedimento. O meglio, se tu chiedevi, ottenevi la riduzione, però non c’è stata l’applicazione d’ufficio. Perché? Perché quei territori erano italiani dal 1866, quindi non erano regioni redente da poco, oltre al fatto che erano anche zone scarsamente popolate, un po’ depresse dal punto di vista socio-economico. Di conseguenza ci sono stati anche due pesi e due misure. Era anche una questione simbolica, di potere.
Ma l’imposizione di un nuovo cognome com’era vissuta nelle famiglie, c’è stato qualcuno che ha fatto resistenza?
Parovel, nel suo libro, cita tra gli altri il caso di un ferroviere che, nonostante fosse un dipendente pubblico, non ne voleva sapere di cambiare il proprio cognome. Quindi delle “resistenze” ci sono state. D’altra parte il fatto stesso che l’operazione di riduzione all’inizio andasse molto a rilento ci dice qualcosa. Per la restituzione è difficile fare congetture perché veniva fatta d’ufficio.
Riguardo a come lo vivevano le famiglie personalmente, ne ho parlato con Pavle Merkù, compositore e linguista di origine slovena. Lui mi raccontava che addirittura a suo padre avevano imposto la “c” al posto della “k” senza nemmeno il decreto prefettizio. Cioè in Comune, senza neanche formalizzarlo, avevano deciso: “Togliamo la k e mettiamo la c”. Suo padre l’aveva presa molto male ovviamente. I figli, nel dopoguerra, si sono mobilitati per ripristinare il vecchio cognome tramite un avvocato, esibendo i certificati originali di battesimo, ma il padre non ha voluto. Diceva: “è lo Stato che mi ha tolto il cognome, dev’essere lo Stato a ridarmelo”. Lo Stato, purtroppo, si è mosso quando era già morto.
è quindi facile immaginare che siano stati in molti a patire quell’imposizione. Non ci sono però cronache di come hanno reagito le singole famiglie. Trieste è sempre stata una città con una forte componente slovena, per non parlare dell’entroterra, che era tutto sloveno.
Non sappiamo come l’abbiano presa i contadini, che casomai dovevano innanzitutto tirare a campare, invece nelle città i dipendenti pubblici non avevano molta scelta, perché magari non ci sarebbe stato il licenziamento, ma certo non avrebbero avuto vita facile.
In mezzo ai drammi, ci sono state anche situazioni tragicomiche, come quella del dottor Slavich. Costui, a rigore, rientrava nella riduzione, ma era un professionista abbastanza conosciuto a Trieste, per cui quando i funzionari gli chiesero se avesse intenzione di regolarizzare la sua posizione, lui rispose: “Certamente, come tutti i buoni cittadini italiani”, “E quale cognome desidera assumere?”, “Italiancich!”.