
In Italia, a differenza che in Francia, l’antisemitismo politico non ha preso piede e Mussolini, malgrado sia antisemita, per quindici anni ha lasciato in pace gli ebrei: perché all’improvviso le leggi razziali? La risposta non può che rimandare a un bisogno vitale di ogni totalitarismo: la mobilitazione permanente attraverso l’invenzione del nemico; malgrado l’impopolarità le leggi razziali furono applicate con successo: come fu possibile?
Intervista a Marie-Anne Matard Bonucci.
Marie-Anne Matard-Bonucci insegna Storia contemporanea all’Università di Grenoble II. Fa parte del Centre d’Histoire de Sciences-Po a Parigi. Ha pubblicato, tra l’altro, i volumi L’homme nouveau dans l’Europe fasciste (1848-1945) (con P. Milza, 2004) e Antisémythes: l’image des juifs entre culture et politique (1848-1939) (2005). Il libro di cui si parla nell’intervista è L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei (Il Mulino, 2008).
(Intervista pubblicata su Una città n. 217, novembre 2014)
Lei nel suo libro sostiene che, a differenza della Francia, dove la persecuzione antiebraica si innesta su un terreno fertile, in Italia le leggi razziali sono calate dall’alto all’improvviso e, malgrado ciò, sono efficaci in tempi addirittura più brevi che in Germania. Com’è stato possibile?
È così. Una delle questioni principali alla base del mio libro è quella sul perché dopo 15 anni di potere, il fascismo ha deciso di perseguitare gli ebrei e sul perché tale decisione si sia potuta mettere in pratica così rapidamente. In Italia la tradizione di antisemitismo sociale e politico, a differenza di paesi come la Francia, la Germania o la Russia, era abbastanza debole. Anche perché il conflitto tra lo stato italiano e la chiesa aveva in qualche modo ostacolato il processo di trasformazione dell’antisemitismo cattolico in antisemitismo politico così com’era avvenuto in Francia o in Austria con il partito dei cristiani sociali. Certo, esisteva una tradizione di antisemitismo cattolico, ma era rimasta confinata, appunto, in un ambito religioso. D’altra parte lo riscontriamo anche da un punto di vista culturale: se pure troviamo l’antisemitismo in certi romanzi come quelli di Guido Milanesi o Papini, non c’è nulla di paragonabile a ciò che troviamo in Francia, dove ci sono decine di romanzi antisemiti, dove ci sono una stampa, partiti e leghe antiebraiche.
Il caso italiano fa riflettere: abbiamo un governo che ha conquistato il potere con la violenza, che è diventato una dittatura totalitaria, che ha quindi la possibilità di fare ciò che decide, e per quindici anni lascia in pace gli ebrei. Non solo, li ammette nel partito fascista. E se guardiamo le cifre, gli ebrei sono presenti in una proporzione superiore rispetto ai non ebrei, dato spiegabile dalle caratteristiche geografiche e sociologiche dalla comunità ebraica. Non c’è traccia di antisemitismo neanche nella dottrina del fascismo e nei testi ufficiali, anche se sappiamo che Mussolini era antisemita fin da quando era nel Partito socialista e dalla Prima guerra mondiale. Era antisemita secondo quella tradizione di antisemitismo sociale, esistita in certi movimenti di sinistra anche nell’Ottocento, che assimilava gli ebrei ai ricchi, ai banchieri, e che credeva all’esistenza di una lobby ebraica che nel segreto avrebbe controllato il mondo. Ecco, malgrado questo, Mussolini aveva deciso di lasciare gli ebrei in pace e non aveva mai fatto dichiarazioni pubbliche di antisemitismo.
La questione, allora, è capire perché decide “solo nel ’38”, se si può dire, di perseguitare gli ebrei. Ecco, nel libro ho tentato di dare una risposta a questo interrogativo, anche se certamente c’erano già state importanti interpretazioni storiche. E la risposta secondo me va cercata nel contesto.
Restiamo un attimo sulla “improvvisazione”. Il fascismo si sforzò di inventare una tradizione antisemita.
Sì, anche questo è un dato di fatto interessante. Nel momento in cui Mussolini decide di adottare le leggi razziali si sviluppa tutto un discorso propagandistico che insiste sul fatto che ci sarebbe una tradizione che porta il fascismo a perseguitare gli ebrei, quindi una logica, una coerenza. Questa poggerebbe, in primo luogo, su una presunta continuità tra la politica demografica e le leggi razziali. Il che è chiaramente un argomento di “seconda generazione”, cioè inventato a posteriori. In realtà, la politica demografica del fascismo era sempre stata una politica del numero, della volontà di far crescere la nazione, ma senza alcuna connotazione razzista, sino al ’37-’38 appunto.
L’altro argomento che si adduceva era quello della continuità con la politica in Etiopia. È vero che ci fu, su questo non c’è dubbio, una politica razzista in Etiopia; nell’aprile del ’37 c’è una legge, in particolare, che vieta il madamismo, cioè il fatto che uomini italiani e donne etiopiche possano vivere insieme o avere dei rapporti di tipo coniugale. Ciò sarà presentato dai fascisti come una specie di anticipazione delle leggi razziali, in particolare il divieto dei matrimoni misti tra ebrei e non ebrei. Ma oggi è appurato che pure in tale ambito, quando legge del ’37 è varata, si pensa solo all’Africa e questo tipo di razzismo è di natura diversa dall’antisemitismo. È importante, tra l’altro, sottolineare come gli ebrei italiani fossero entusiasti della guerra di Etiopia esattamente come i non ebrei: partono volontari, danno pure loro l’oro per la patria, per una politica coloniale percepita come del tutto analoga a quella delle altre potenze, e niente affatto come l’anticipazione di una politica razzista che avrebbe condotto logicamente all’antisemitismo.
In realtà, questo bisogno da parte della propaganda fascista di insistere su una continuità ci aiuta a capire che la realtà era molto diversa. Certo, esiste una logica, una razionalità, ma non è, appunto, quella che i fascisti mettono avanti.
Ecco, lei per capire il perché delle leggi razziali, rimandava al contesto.
Sì, per capire qual è la logica delle leggi razziali bisogna riflettere sul contesto nel quale fu presa la decisione. Il contesto del ’37 è quello di un momento di stasi, di pausa nella dinamica totalitaria del regime: gli antifascisti erano già da anni in esilio o incarcerati, nel partito le lotte di potere sembravano sedate, c’era stata la guerra d’Etiopia, che come sappiamo fu un momento di entusiasmo, di consenso intorno al fascismo, come spiega Renzo De Felice; poi c’era stata la guerra di Spagna, che era sembrata dare un nuovo slancio alla rivoluzione fascista e che invece era stata meno popolare, anche per via della lotta fratricida tra italiani, fascisti e antifascisti.
Ma il ’37 è un anno di calma, di pausa, e sappiamo che in un regime totalitario l’assenza di conflitti e di lotte politiche è un pericolo. La logica di un regime totalitario non è quella di una democrazia. Ci vuole sempre del movimento, qualsiasi movimento -Hannah Arendt su questo aveva ragione. Jean Bérard, storico francese dell’antichità, vissuto in Italia negli anni Trenta, in un libro molto interessante sul fascismo scritto nel ’37, sotto pseudonimo, spiegava che il fascismo era un po’ come la bicicletta: se uno non pedala, non va avanti e cade.
Ecco, io credo che sia questa la vera logica che spiega il perché delle leggi razziali.
Nel dicembre del ’37, nella prospettiva di un’uscita dal conflitto spagnolo che poco a poco sembra avvicinarsi, Mussolini riflette su quali potrebbero essere i nuovi mezzi per mantenere un clima di tensione e di entusiasmo bellico. È allora che pronuncia questa frase: “Quando finirà la Spagna, inventerò un’altra cosa. Il carattere degli italiani si deve creare nel combattimento”. Il mio presupposto è dunque che l’antisemitismo fu pensato come un mezzo per rilanciare la macchina totalitaria, come una specie di mito, diciamo, per l’azione, come qualcosa per mobilitare le élites e le organizzazioni fasciste in una nuova battaglia. Dunque il momento è molto importante.
Ovviamente gli ebrei non furono scelti per caso…
Certo. Sappiamo da Renzo de Felice, da Meir Michaelis, da Michele Sarfatti, che la decisione delle leggi razziali fu autonoma, nel senso che la Germania non esercitò pressione sull’Italia. Eppure, a mio avviso, la Germania un ruolo l’ebbe proprio in quanto Stato totalitario arrivato a realizzare molto più rapidamente ciò che Mussolini voleva fare in Italia, cioè trasformare la società e creare un uomo nuovo, guerriero. In Mussolini, come ben spiega Emilio Gentile, c’era quest’idea di trasformare il carattere degli italiani. Se all’inizio il fascismo fu un modello per la Germania, le cose si sono poco a poco rovesciate e a un certo punto furono i fascisti a guardare con attenzione e soggezione a cosa succedeva in Germania. Dal ’35 i gerarchi vanno molto spesso in Germania, si creano molti legami, e nel settembre del ’37 Mussolini fa il famoso viaggio in Germania in cui rimane molto impressionato da ciò che vede, soprattutto dalla disciplina delle folle, della popolazione, e dal quale torna convinto che “un po’ di Prussia non farebbe male agli italiani”.
Ma non c’è pure la diffusione dell’antisemitismo in tutta Europa che influenza la scelta italiana?
Certo, nella seconda metà degli anni Trenta l’antisemitismo si diffonde dappertutto in Europa, in Romania, in Polonia, in tutti i paesi dove ci sono delle dittature nazionaliste; tutti i partiti nazionalisti sono antisemiti, e dunque c’è pure una dimensione di conformismo che rende difficile per i fascisti italiani continuare ad affermare la loro differenza dai nazisti, come facevano ancora all’inizio degli anni Trenta, su posizioni come: “Noi siamo nazionalisti ma non siamo antisemiti”. Anche questa dimensione della congiuntura è molto importante.
Ma nella logica fascista resta fondamentale, a mio avviso, questa dimensione più strutturale, questo bisogno, cioè, di movimento, di mobilitazione permanente, questa violenza strutturale del fascismo che, per esistere, ha sempre bisogno di nuovi nemici. E nel contesto del ’37 gli unici nemici possibili sono diventati “gli altri”, coloro che costituiscono una minoranza nella nazione, cioè gli ebrei. Renzo de Felice aveva già analizzato questo processo, riprendendo in parte argomenti dati dai fascisti stessi, discutibili come abbiamo visto.
L’altro fatto impressionante, che fa riflettere, e che, in un certo senso, rende molto pessimisti, è che, pur in assenza di una tradizione di antisemitismo sociale e politico, la conversione delle élites dei funzionari all’antisemitismo di Stato avviene molto rapidamente. Questi, pur non credendo che la lobby ebraica esista veramente, o che gli ebrei siano l’incarnazione del male, per semplice obbedienza o conformismo in pochissimo tempo diventano solerti complici dell’antisemitismo di Stato.
Nella legislazione c’erano lacune, anche per via della presenza di molti matrimoni misti, e per superarle occorse uno zelo particolare…
Sì, appunto. Fu necessario uno zelo particolare, anche perché, come ho detto, gli ebrei erano integrati molto bene nella società italiana. L’Italia era il paese, in Europa, col più alto numero di matrimoni misti e raramente gli ebrei erano percepiti dagli italiani non ebrei come gente diversa, come “altri”. Dunque, fu necessario un lavoro molto intenso di propaganda per installare questo pregiudizio nella società. Essendo i legami tra ebrei e non ebrei così numerosi, forti e antichi, diventava ancora più crudele trattare come paria gente che era vista come simile. Significava proprio incidere nella carne viva di una società.
Dunque ci fu, in effetti, tanto zelo e lo si può verificare studiando gli atti dell’amministrazione. Michele Sarfatti ha parlato di persecuzione amministrativa perché dopo le leggi ci furono delle circolari, ci fu una specie di corsa, di concorso tra i diversi ministeri, tra le diverse amministrazioni, per applicare le leggi razziali e anche al di là. Per esempio vediamo le amministrazioni chiedere alla gente un certificato di non appartenenza alla razza ebraica, cosa che non era prevista dalla legge.
Nella ricerca di un’ideologia razzista univoca del regime, si confrontano entrambi i razzismi, quello di tipo culturale e quello di tipo biologico, che a un certo punto sembra prevalere. Anche questo segnala l’improvvisazione?
Certo, la dimensione ideologica è importante. All’inizio della campagna razziale non esiste una dottrina già stabilita. Il famoso manifesto degli scienziati le darà un’impostazione biologica (credo sia Vittorio Foa a chiamarlo una caricatura di stile teutonico). Oggi è risaputo che Mussolini è dietro il testo scritto da un giovane antropologo, Guido Landra; lì possiamo dire certamente che la lingua è quella dei nazisti. Ma in un secondo tempo, il manifesto sarà criticato e verranno fuori altre anime del razzismo italiano. Evola propone o vuol proporre una specie di razzismo “spirituale”, mentre, se guardiamo bene, è pure impregnato di razzismo biologico. Ma c’è comunque l’idea di non seguire del tutto il razzismo tedesco. Appare anche un razzismo più nazionale, con l’idea appunto che la razza è un concetto più che altro politico, e che si tratta di un comportamento. Infine c’è la corrente volta a collegare il razzismo con la tradizione cattolica, anche se la Chiesa Cattolica in quanto istituzione, non è favorevole alla campagna razziale.
Fatto sta che se Mussolini non sceglierà mai Evola, è il più vicino alla sua concezione. Non ci sarà mai da parte del Duce una vera scelta, ci saranno delle esitazioni, ci sarà un continuo dibattito. Certo, anche nel nazionalsocialismo ci fu un dibattito fra diverse correnti del razzismo, ma secondo me l’importante per Mussolini non è tanto di arrivare a una dottrina unica del razzismo, ma di suscitare un dibattito, una discussione con l’obiettivo di rilanciare il processo totalitario del fascismo. Infatti, intorno alla nozione di razza dei libri sono pubblicati, degli universitari scrivono degli articoli, eccetera. Lo si vede benissimo leggendo “La Difesa della Razza”, dove vengono ripresi tutti i temi dell’antisemitismo.
Per esempio, sulle copertine della rivista si ritrovano stampe di omicidi rituali del Seicento o del Settecento o vengono riciclate certe rappresentazioni di Giuda che troviamo nei dipinti di Giotto o di altri pittori del Rinascimento. Accanto a questo filone di antisemitismo cattolico, la rivista fa convivere un filone di antisemitismo sociale, con al centro la figura del banchiere ebreo, riprendendo anche i disegni di satira politica dell’Ottocento, per esempio Caran D’Ache che nell’affaire Dreyfus aveva disegnato queste caricature antisemite in cui vediamo i Rothschild che dominano il pianeta. Nella dimensione dell’antisemitismo biologico, l’ebreo è invece additato come il controtipo della razza pura italiana raffigurata da diverse statue dell’antichità, che possiamo trovare a Tivoli, a Villa Adriana o in altri luoghi.
La propaganda de “La Difesa della Razza” mischia dunque diverse tradizioni nazionali e molto rapidamente ne crea una sua, italiana, partendo da questi riciclaggi. In quest’ambito si può osservare la creazione di una propaganda quasi dal nulla. Mentre in Francia esistevano dei giornali, dei romanzi, e anche quelli che chiamiamo “pamphlet”, cioè libri pseudo-intellettuali sull’antisemitismo, in Italia la biblioteca dell’antisemita prima del ’38 era molto ridotta, i libri antisemiti erano qualche decina.
Invece si mette in moto un processo editoriale e giornalistico che porta alla creazione appunto de “La Difesa della Razza”, con mezzi anche finanziari molto importanti, e vengono pubblicati decine e decine di libri.
In questo quadro qual è il ruolo di Paolo Orano?
Ci sono delle discussioni sul ruolo di Orano. Paolo Orano è un giornalista molto vicino a Mussolini che aveva sposato Camille Mallarmè, una giornalista francese di “Je suis Partout”, giornale molto legato agli ambienti dell’estrema destra francese, e lei stessa antisemita. Orano, che prima del ’37 aveva scritto tantissimo ma senza mai toccare la questione dell’antisemitismo, nella primavera del ’37 pubblica “Gli ebrei in Italia”, che suscita forti polemiche ed è molto commentato sulla stampa. Nella conclusione del suo libro, Orano chiede agli ebrei italiani di scegliere tra il sionismo e l’appartenenza alla nazione italiana. In questo libro c’è ovviamente un discorso antisemita, ma gli ebrei italiani non sono ancora attaccati in quanto tali, ma come possibili complici del sionismo e in questo senso come cattivi patrioti. Nella stampa per alcuni mesi c’è un dibattito abbastanza nutrito e sappiamo, da certi documenti del Minculpop, che questo dibattito non è ancora diretto dal potere, cioè va a ruota libera. La mia idea è che la pubblicazione di questo libro sia una specie di test per vedere come reagiscono i gerarchi, i giornalisti, una parte dell’opinione pubblica, alla possibilità di impostare un antisemitismo di Stato.
A un certo momento sappiamo che Mussolini domanda ai giornalisti di smettere di commentare il libro, per poi più tardi far partire una campagna antisemita che non smetterà più fino alla guerra. Dunque, Orano ha avuto un ruolo importante nel lanciare la propaganda antisemita. La questione che si pone è capire se è stato, come si dice, un libro voluto dal Duce, o se Orano l’ha scritto di sua iniziativa e poi sia stato sfruttato da Mussolini in un secondo tempo. Purtroppo non abbiamo argomenti risolutivi al riguardo.
Ad ogni modo, all’inizio Orano non è su una posizione di razzismo biologico. Ciò potrebbe spiegare perché nel luglio del ’38, quando c’è il lancio della campagna antisemita, Mussolini comunque non si rivolge a Orano, ma col Manifesto della Razza imposta la campagna razzista su base biologica. Si può ipotizzare che facendo così Mussolini volesse, appunto, dare un messaggio di radicalità all’opinione pubblica.
Lo stereotipo più importante che viene usato è comunque quello dell’ebreo borghese?
Sì. In quanto controtipo dell’italiano guerriero, del nuovo italiano combattente.
Anche dopo la Liberazione, sulle leggi razziali è calato il silenzio, quasi a voler rimuovere.
Questo è vero per l’Italia, come è vero per la Francia e forse altri paesi.
Quando gli ebrei sono tornati, qualche volta hanno voluto raccontare, ma hanno avuto l’impressione che la gente non volesse ascoltarli, perché talmente presa dalle proprie difficoltà nel Dopoguerra, o hanno avuto la paura di non essere capiti.
La memoria patriottica comune valorizzava la resistenza. Invece, finire in un campo di concentramento perché partigiano era diverso dall’essere deportato solo perché uno era nato ebreo. Ecco, questa particolarità non è stata capita bene dalla società francese o italiana, e bisognerà aspettare la fine degli anni Sessanta perché la Shoah venga capita nella sua unicità, in quanto genocidio, in quanto progetto di sterminio molto particolare nell’ambito di tutti i crimini della Seconda guerra mondiale.
Nel caso italiano c’è una particolarità: oggi come oggi la Shoah sta diventando quasi il simbolo del fascismo, il che è strano, perché la persecuzione degli ebrei arriva solo alla fine del fascismo. C’è una logica fascista che porta a perseguitare gli ebrei, ma fin dall’inizio il fascismo è una dittatura e molto presto un regime totalitario, e dunque è riduttivo riassumere tutti i crimini del fascismo alle sole persecuzioni razziste. Non so se mi spiego.
Paradossalmente può anche suonare assolutorio: il fascismo ha fatto quello di ignobile, per il resto… In fondo, questo la destra lo dice apertamente.
Quindi se è molto importante parlare delle leggi razziali è altrettanto importante ricordare che i crimini del fascismo sono tantissimi. Se il popolo italiano non fosse stato sottomesso da questa dittatura totalitaria gli ebrei non sarebbero stati perseguitati.
La soppressione della democrazia è la condizione dell’antisemitismo di Stato. Dunque la lotta contro il razzismo va condotta su due fronti: la lotta contro ogni forma di discriminazione, ma anche, e in primis, la difesa della democrazia.
(a cura di Gianni Saporetti)
È così. Una delle questioni principali alla base del mio libro è quella sul perché dopo 15 anni di potere, il fascismo ha deciso di perseguitare gli ebrei e sul perché tale decisione si sia potuta mettere in pratica così rapidamente. In Italia la tradizione di antisemitismo sociale e politico, a differenza di paesi come la Francia, la Germania o la Russia, era abbastanza debole. Anche perché il conflitto tra lo stato italiano e la chiesa aveva in qualche modo ostacolato il processo di trasformazione dell’antisemitismo cattolico in antisemitismo politico così com’era avvenuto in Francia o in Austria con il partito dei cristiani sociali. Certo, esisteva una tradizione di antisemitismo cattolico, ma era rimasta confinata, appunto, in un ambito religioso. D’altra parte lo riscontriamo anche da un punto di vista culturale: se pure troviamo l’antisemitismo in certi romanzi come quelli di Guido Milanesi o Papini, non c’è nulla di paragonabile a ciò che troviamo in Francia, dove ci sono decine di romanzi antisemiti, dove ci sono una stampa, partiti e leghe antiebraiche.
Il caso italiano fa riflettere: abbiamo un governo che ha conquistato il potere con la violenza, che è diventato una dittatura totalitaria, che ha quindi la possibilità di fare ciò che decide, e per quindici anni lascia in pace gli ebrei. Non solo, li ammette nel partito fascista. E se guardiamo le cifre, gli ebrei sono presenti in una proporzione superiore rispetto ai non ebrei, dato spiegabile dalle caratteristiche geografiche e sociologiche dalla comunità ebraica. Non c’è traccia di antisemitismo neanche nella dottrina del fascismo e nei testi ufficiali, anche se sappiamo che Mussolini era antisemita fin da quando era nel Partito socialista e dalla Prima guerra mondiale. Era antisemita secondo quella tradizione di antisemitismo sociale, esistita in certi movimenti di sinistra anche nell’Ottocento, che assimilava gli ebrei ai ricchi, ai banchieri, e che credeva all’esistenza di una lobby ebraica che nel segreto avrebbe controllato il mondo. Ecco, malgrado questo, Mussolini aveva deciso di lasciare gli ebrei in pace e non aveva mai fatto dichiarazioni pubbliche di antisemitismo.
La questione, allora, è capire perché decide “solo nel ’38”, se si può dire, di perseguitare gli ebrei. Ecco, nel libro ho tentato di dare una risposta a questo interrogativo, anche se certamente c’erano già state importanti interpretazioni storiche. E la risposta secondo me va cercata nel contesto.
Restiamo un attimo sulla “improvvisazione”. Il fascismo si sforzò di inventare una tradizione antisemita.
Sì, anche questo è un dato di fatto interessante. Nel momento in cui Mussolini decide di adottare le leggi razziali si sviluppa tutto un discorso propagandistico che insiste sul fatto che ci sarebbe una tradizione che porta il fascismo a perseguitare gli ebrei, quindi una logica, una coerenza. Questa poggerebbe, in primo luogo, su una presunta continuità tra la politica demografica e le leggi razziali. Il che è chiaramente un argomento di “seconda generazione”, cioè inventato a posteriori. In realtà, la politica demografica del fascismo era sempre stata una politica del numero, della volontà di far crescere la nazione, ma senza alcuna connotazione razzista, sino al ’37-’38 appunto.
L’altro argomento che si adduceva era quello della continuità con la politica in Etiopia. È vero che ci fu, su questo non c’è dubbio, una politica razzista in Etiopia; nell’aprile del ’37 c’è una legge, in particolare, che vieta il madamismo, cioè il fatto che uomini italiani e donne etiopiche possano vivere insieme o avere dei rapporti di tipo coniugale. Ciò sarà presentato dai fascisti come una specie di anticipazione delle leggi razziali, in particolare il divieto dei matrimoni misti tra ebrei e non ebrei. Ma oggi è appurato che pure in tale ambito, quando legge del ’37 è varata, si pensa solo all’Africa e questo tipo di razzismo è di natura diversa dall’antisemitismo. È importante, tra l’altro, sottolineare come gli ebrei italiani fossero entusiasti della guerra di Etiopia esattamente come i non ebrei: partono volontari, danno pure loro l’oro per la patria, per una politica coloniale percepita come del tutto analoga a quella delle altre potenze, e niente affatto come l’anticipazione di una politica razzista che avrebbe condotto logicamente all’antisemitismo.
In realtà, questo bisogno da parte della propaganda fascista di insistere su una continuità ci aiuta a capire che la realtà era molto diversa. Certo, esiste una logica, una razionalità, ma non è, appunto, quella che i fascisti mettono avanti.
Ecco, lei per capire il perché delle leggi razziali, rimandava al contesto.
Sì, per capire qual è la logica delle leggi razziali bisogna riflettere sul contesto nel quale fu presa la decisione. Il contesto del ’37 è quello di un momento di stasi, di pausa nella dinamica totalitaria del regime: gli antifascisti erano già da anni in esilio o incarcerati, nel partito le lotte di potere sembravano sedate, c’era stata la guerra d’Etiopia, che come sappiamo fu un momento di entusiasmo, di consenso intorno al fascismo, come spiega Renzo De Felice; poi c’era stata la guerra di Spagna, che era sembrata dare un nuovo slancio alla rivoluzione fascista e che invece era stata meno popolare, anche per via della lotta fratricida tra italiani, fascisti e antifascisti.
Ma il ’37 è un anno di calma, di pausa, e sappiamo che in un regime totalitario l’assenza di conflitti e di lotte politiche è un pericolo. La logica di un regime totalitario non è quella di una democrazia. Ci vuole sempre del movimento, qualsiasi movimento -Hannah Arendt su questo aveva ragione. Jean Bérard, storico francese dell’antichità, vissuto in Italia negli anni Trenta, in un libro molto interessante sul fascismo scritto nel ’37, sotto pseudonimo, spiegava che il fascismo era un po’ come la bicicletta: se uno non pedala, non va avanti e cade.
Ecco, io credo che sia questa la vera logica che spiega il perché delle leggi razziali.
Nel dicembre del ’37, nella prospettiva di un’uscita dal conflitto spagnolo che poco a poco sembra avvicinarsi, Mussolini riflette su quali potrebbero essere i nuovi mezzi per mantenere un clima di tensione e di entusiasmo bellico. È allora che pronuncia questa frase: “Quando finirà la Spagna, inventerò un’altra cosa. Il carattere degli italiani si deve creare nel combattimento”. Il mio presupposto è dunque che l’antisemitismo fu pensato come un mezzo per rilanciare la macchina totalitaria, come una specie di mito, diciamo, per l’azione, come qualcosa per mobilitare le élites e le organizzazioni fasciste in una nuova battaglia. Dunque il momento è molto importante.
Ovviamente gli ebrei non furono scelti per caso…
Certo. Sappiamo da Renzo de Felice, da Meir Michaelis, da Michele Sarfatti, che la decisione delle leggi razziali fu autonoma, nel senso che la Germania non esercitò pressione sull’Italia. Eppure, a mio avviso, la Germania un ruolo l’ebbe proprio in quanto Stato totalitario arrivato a realizzare molto più rapidamente ciò che Mussolini voleva fare in Italia, cioè trasformare la società e creare un uomo nuovo, guerriero. In Mussolini, come ben spiega Emilio Gentile, c’era quest’idea di trasformare il carattere degli italiani. Se all’inizio il fascismo fu un modello per la Germania, le cose si sono poco a poco rovesciate e a un certo punto furono i fascisti a guardare con attenzione e soggezione a cosa succedeva in Germania. Dal ’35 i gerarchi vanno molto spesso in Germania, si creano molti legami, e nel settembre del ’37 Mussolini fa il famoso viaggio in Germania in cui rimane molto impressionato da ciò che vede, soprattutto dalla disciplina delle folle, della popolazione, e dal quale torna convinto che “un po’ di Prussia non farebbe male agli italiani”.
Ma non c’è pure la diffusione dell’antisemitismo in tutta Europa che influenza la scelta italiana?
Certo, nella seconda metà degli anni Trenta l’antisemitismo si diffonde dappertutto in Europa, in Romania, in Polonia, in tutti i paesi dove ci sono delle dittature nazionaliste; tutti i partiti nazionalisti sono antisemiti, e dunque c’è pure una dimensione di conformismo che rende difficile per i fascisti italiani continuare ad affermare la loro differenza dai nazisti, come facevano ancora all’inizio degli anni Trenta, su posizioni come: “Noi siamo nazionalisti ma non siamo antisemiti”. Anche questa dimensione della congiuntura è molto importante.
Ma nella logica fascista resta fondamentale, a mio avviso, questa dimensione più strutturale, questo bisogno, cioè, di movimento, di mobilitazione permanente, questa violenza strutturale del fascismo che, per esistere, ha sempre bisogno di nuovi nemici. E nel contesto del ’37 gli unici nemici possibili sono diventati “gli altri”, coloro che costituiscono una minoranza nella nazione, cioè gli ebrei. Renzo de Felice aveva già analizzato questo processo, riprendendo in parte argomenti dati dai fascisti stessi, discutibili come abbiamo visto.
L’altro fatto impressionante, che fa riflettere, e che, in un certo senso, rende molto pessimisti, è che, pur in assenza di una tradizione di antisemitismo sociale e politico, la conversione delle élites dei funzionari all’antisemitismo di Stato avviene molto rapidamente. Questi, pur non credendo che la lobby ebraica esista veramente, o che gli ebrei siano l’incarnazione del male, per semplice obbedienza o conformismo in pochissimo tempo diventano solerti complici dell’antisemitismo di Stato.
Nella legislazione c’erano lacune, anche per via della presenza di molti matrimoni misti, e per superarle occorse uno zelo particolare…
Sì, appunto. Fu necessario uno zelo particolare, anche perché, come ho detto, gli ebrei erano integrati molto bene nella società italiana. L’Italia era il paese, in Europa, col più alto numero di matrimoni misti e raramente gli ebrei erano percepiti dagli italiani non ebrei come gente diversa, come “altri”. Dunque, fu necessario un lavoro molto intenso di propaganda per installare questo pregiudizio nella società. Essendo i legami tra ebrei e non ebrei così numerosi, forti e antichi, diventava ancora più crudele trattare come paria gente che era vista come simile. Significava proprio incidere nella carne viva di una società.
Dunque ci fu, in effetti, tanto zelo e lo si può verificare studiando gli atti dell’amministrazione. Michele Sarfatti ha parlato di persecuzione amministrativa perché dopo le leggi ci furono delle circolari, ci fu una specie di corsa, di concorso tra i diversi ministeri, tra le diverse amministrazioni, per applicare le leggi razziali e anche al di là. Per esempio vediamo le amministrazioni chiedere alla gente un certificato di non appartenenza alla razza ebraica, cosa che non era prevista dalla legge.
Nella ricerca di un’ideologia razzista univoca del regime, si confrontano entrambi i razzismi, quello di tipo culturale e quello di tipo biologico, che a un certo punto sembra prevalere. Anche questo segnala l’improvvisazione?
Certo, la dimensione ideologica è importante. All’inizio della campagna razziale non esiste una dottrina già stabilita. Il famoso manifesto degli scienziati le darà un’impostazione biologica (credo sia Vittorio Foa a chiamarlo una caricatura di stile teutonico). Oggi è risaputo che Mussolini è dietro il testo scritto da un giovane antropologo, Guido Landra; lì possiamo dire certamente che la lingua è quella dei nazisti. Ma in un secondo tempo, il manifesto sarà criticato e verranno fuori altre anime del razzismo italiano. Evola propone o vuol proporre una specie di razzismo “spirituale”, mentre, se guardiamo bene, è pure impregnato di razzismo biologico. Ma c’è comunque l’idea di non seguire del tutto il razzismo tedesco. Appare anche un razzismo più nazionale, con l’idea appunto che la razza è un concetto più che altro politico, e che si tratta di un comportamento. Infine c’è la corrente volta a collegare il razzismo con la tradizione cattolica, anche se la Chiesa Cattolica in quanto istituzione, non è favorevole alla campagna razziale.
Fatto sta che se Mussolini non sceglierà mai Evola, è il più vicino alla sua concezione. Non ci sarà mai da parte del Duce una vera scelta, ci saranno delle esitazioni, ci sarà un continuo dibattito. Certo, anche nel nazionalsocialismo ci fu un dibattito fra diverse correnti del razzismo, ma secondo me l’importante per Mussolini non è tanto di arrivare a una dottrina unica del razzismo, ma di suscitare un dibattito, una discussione con l’obiettivo di rilanciare il processo totalitario del fascismo. Infatti, intorno alla nozione di razza dei libri sono pubblicati, degli universitari scrivono degli articoli, eccetera. Lo si vede benissimo leggendo “La Difesa della Razza”, dove vengono ripresi tutti i temi dell’antisemitismo.
Per esempio, sulle copertine della rivista si ritrovano stampe di omicidi rituali del Seicento o del Settecento o vengono riciclate certe rappresentazioni di Giuda che troviamo nei dipinti di Giotto o di altri pittori del Rinascimento. Accanto a questo filone di antisemitismo cattolico, la rivista fa convivere un filone di antisemitismo sociale, con al centro la figura del banchiere ebreo, riprendendo anche i disegni di satira politica dell’Ottocento, per esempio Caran D’Ache che nell’affaire Dreyfus aveva disegnato queste caricature antisemite in cui vediamo i Rothschild che dominano il pianeta. Nella dimensione dell’antisemitismo biologico, l’ebreo è invece additato come il controtipo della razza pura italiana raffigurata da diverse statue dell’antichità, che possiamo trovare a Tivoli, a Villa Adriana o in altri luoghi.
La propaganda de “La Difesa della Razza” mischia dunque diverse tradizioni nazionali e molto rapidamente ne crea una sua, italiana, partendo da questi riciclaggi. In quest’ambito si può osservare la creazione di una propaganda quasi dal nulla. Mentre in Francia esistevano dei giornali, dei romanzi, e anche quelli che chiamiamo “pamphlet”, cioè libri pseudo-intellettuali sull’antisemitismo, in Italia la biblioteca dell’antisemita prima del ’38 era molto ridotta, i libri antisemiti erano qualche decina.
Invece si mette in moto un processo editoriale e giornalistico che porta alla creazione appunto de “La Difesa della Razza”, con mezzi anche finanziari molto importanti, e vengono pubblicati decine e decine di libri.
In questo quadro qual è il ruolo di Paolo Orano?
Ci sono delle discussioni sul ruolo di Orano. Paolo Orano è un giornalista molto vicino a Mussolini che aveva sposato Camille Mallarmè, una giornalista francese di “Je suis Partout”, giornale molto legato agli ambienti dell’estrema destra francese, e lei stessa antisemita. Orano, che prima del ’37 aveva scritto tantissimo ma senza mai toccare la questione dell’antisemitismo, nella primavera del ’37 pubblica “Gli ebrei in Italia”, che suscita forti polemiche ed è molto commentato sulla stampa. Nella conclusione del suo libro, Orano chiede agli ebrei italiani di scegliere tra il sionismo e l’appartenenza alla nazione italiana. In questo libro c’è ovviamente un discorso antisemita, ma gli ebrei italiani non sono ancora attaccati in quanto tali, ma come possibili complici del sionismo e in questo senso come cattivi patrioti. Nella stampa per alcuni mesi c’è un dibattito abbastanza nutrito e sappiamo, da certi documenti del Minculpop, che questo dibattito non è ancora diretto dal potere, cioè va a ruota libera. La mia idea è che la pubblicazione di questo libro sia una specie di test per vedere come reagiscono i gerarchi, i giornalisti, una parte dell’opinione pubblica, alla possibilità di impostare un antisemitismo di Stato.
A un certo momento sappiamo che Mussolini domanda ai giornalisti di smettere di commentare il libro, per poi più tardi far partire una campagna antisemita che non smetterà più fino alla guerra. Dunque, Orano ha avuto un ruolo importante nel lanciare la propaganda antisemita. La questione che si pone è capire se è stato, come si dice, un libro voluto dal Duce, o se Orano l’ha scritto di sua iniziativa e poi sia stato sfruttato da Mussolini in un secondo tempo. Purtroppo non abbiamo argomenti risolutivi al riguardo.
Ad ogni modo, all’inizio Orano non è su una posizione di razzismo biologico. Ciò potrebbe spiegare perché nel luglio del ’38, quando c’è il lancio della campagna antisemita, Mussolini comunque non si rivolge a Orano, ma col Manifesto della Razza imposta la campagna razzista su base biologica. Si può ipotizzare che facendo così Mussolini volesse, appunto, dare un messaggio di radicalità all’opinione pubblica.
Lo stereotipo più importante che viene usato è comunque quello dell’ebreo borghese?
Sì. In quanto controtipo dell’italiano guerriero, del nuovo italiano combattente.
Anche dopo la Liberazione, sulle leggi razziali è calato il silenzio, quasi a voler rimuovere.
Questo è vero per l’Italia, come è vero per la Francia e forse altri paesi.
Quando gli ebrei sono tornati, qualche volta hanno voluto raccontare, ma hanno avuto l’impressione che la gente non volesse ascoltarli, perché talmente presa dalle proprie difficoltà nel Dopoguerra, o hanno avuto la paura di non essere capiti.
La memoria patriottica comune valorizzava la resistenza. Invece, finire in un campo di concentramento perché partigiano era diverso dall’essere deportato solo perché uno era nato ebreo. Ecco, questa particolarità non è stata capita bene dalla società francese o italiana, e bisognerà aspettare la fine degli anni Sessanta perché la Shoah venga capita nella sua unicità, in quanto genocidio, in quanto progetto di sterminio molto particolare nell’ambito di tutti i crimini della Seconda guerra mondiale.
Nel caso italiano c’è una particolarità: oggi come oggi la Shoah sta diventando quasi il simbolo del fascismo, il che è strano, perché la persecuzione degli ebrei arriva solo alla fine del fascismo. C’è una logica fascista che porta a perseguitare gli ebrei, ma fin dall’inizio il fascismo è una dittatura e molto presto un regime totalitario, e dunque è riduttivo riassumere tutti i crimini del fascismo alle sole persecuzioni razziste. Non so se mi spiego.
Paradossalmente può anche suonare assolutorio: il fascismo ha fatto quello di ignobile, per il resto… In fondo, questo la destra lo dice apertamente.
Quindi se è molto importante parlare delle leggi razziali è altrettanto importante ricordare che i crimini del fascismo sono tantissimi. Se il popolo italiano non fosse stato sottomesso da questa dittatura totalitaria gli ebrei non sarebbero stati perseguitati.
La soppressione della democrazia è la condizione dell’antisemitismo di Stato. Dunque la lotta contro il razzismo va condotta su due fronti: la lotta contro ogni forma di discriminazione, ma anche, e in primis, la difesa della democrazia.
(a cura di Gianni Saporetti)