“Giudaica perifida”: presentazione di Daniele Menozzi

Qui sotto il video della presentazione tenutasi venerdì 30 gennaio 2015 alle ore 18 al Centro culturale San Francesco di Forlì. Sotto al video, la trascrizione dell’intervento pubblicata su Una città n. 221, aprile 2015.

Daniele Menozzi presenta il suo libro: “Giudaica perfidia. Uno stereotipo antisemita fra liturgia e storia”. Incontro organizzato dalla Fondazione Alfred Lewin.

«Preghiamo anche per i perfidi giudei», così recita nel venerdì santo il Missale romanum di Pio V, pubblicato nel 1570, sintetizzando l’immagine degli ebrei nella liturgia latina. Stanno qui le radici di uno stereotipo antisemita che le traduzioni in volgare dei testi liturgici introiettano nella mentalità cattolica. Ma dal tardo Settecento la cultura cattolica comincia a interrogarsi su questo «insegnamento del disprezzo» trasmesso dal culto pubblico e ufficiale della chiesa. Gli eventi culminati nella Shoah avviano poi un decisivo confronto con la storia, portando a un riesame del rapporto con gli ebrei. Lo testimoniano tormentati rifacimenti della preghiera del venerdì santo da Giovanni XXIII fino ai nostri giorni.

Daniele Menozzi, insegna Storia contemporanea alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Con il Mulino ha pubblicato: «Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti» (2008) e «Chiesa e diritti umani. Legge naturale e modernità politica dalla Rivoluzione francese ai nostri giorni» (2012).

LA LEZIONE
DEL DISPREZZO

Dettaglio del "Pogrom del ghetto di Francoforte" del 1614, opera di J.L. Gottfried, 1619

Quella formulazione, “preghiamo per i perfidi ebrei”, ripetuta ogni Settimana santa, alimentando la cultura del disprezzo, finì per preparare il terreno per il razzismo antisemita;
un incredibile errore di traduzione che pure non si volle correggere e quell’illusione di poter distinguere
tra antisemitismo lecito e illecito; l’importanza di ricordare, accanto a questa tradizione, anche quella, pur minoritaria, sinceramente filosemita e autocritica.
Intervento di Daniele Menozzi.

Da­nie­le Me­noz­zi in­se­gna Sto­ria con­tem­po­ra­nea al­la Scuo­la Nor­ma­le Su­pe­rio­re di Pi­sa. Con Il Mu­li­no ha pub­bli­ca­to: Chie­sa, pa­ce e guer­ra nel No­ve­cen­to. Ver­so una de­le­git­ti­ma­zio­ne re­li­gio­sa dei con­flit­ti (2008), Chie­sa e di­rit­ti uma­ni. Leg­ge na­tu­ra­le e mo­der­ni­tà po­li­ti­ca dal­la Ri­vo­lu­zio­ne fran­ce­se ai no­stri gior­ni (2012). Pub­bli­chia­mo l’in­ter­ven­to da lui te­nu­to a For­lì il 30 gen­na­io scor­so in oc­ca­sio­ne del­la pre­sen­ta­zio­ne del vo­lu­me Giu­dai­ca per­fi­dia. Uno ste­reo­ti­po an­ti­se­mi­ta fra li­tur­gia e sto­ria (2014), or­ga­niz­za­ta dal­la Fon­da­zio­ne Al­fred Lewin.

Il vo­lu­me è na­to da una do­man­da di fon­do: co­me è sta­to pos­si­bi­le che in Eu­ro­pa, una ter­ra tut­to som­ma­to cri­stia­na, do­ve gli ele­men­ti di fra­tel­lan­za do­vreb­be­ro rap­pre­sen­ta­re la ci­fra ca­rat­te­ri­sti­ca e ti­pi­ca del­la con­vi­ven­za co­mu­ne, si sia po­tu­ta ve­ri­fi­ca­re la tra­ge­dia del­la Shoah? Già al­l’in­do­ma­ni del­la Se­con­da guer­ra mon­dia­le la que­stio­ne era sta­ta po­sta. Una del­le ri­spo­ste -na­tu­ral­men­te non la so­la- ve­ni­va avan­za­ta da un ebreo fran­ce­se, Ju­les Isaac, pro­fon­da­men­te col­pi­to an­che sul pia­no per­so­na­le da quel­l’e­ven­to: in se­gui­to al­le leg­gi raz­zia­li pro­mos­se dal go­ver­no di Vi­chy, ave­va per­so il la­vo­ro di al­to fun­zio­na­rio nel mi­ni­ste­ro del­l’e­du­ca­zio­ne e, do­po la de­por­ta­zio­ne, una buo­na par­te del­la sua fa­mi­glia era mor­ta nei cam­pi di con­cen­tra­men­to. Qua­si co­me at­to di li­be­ra­zio­ne ri­spet­to ai dram­mi per­so­na­li che ave­va vis­su­to, Isaac si de­di­cò a in­da­ga­re le ra­gio­ni del­la Shoah. Non fu una scel­ta fa­ci­le. Il suo pri­mo li­bro sul­la que­stio­ne, in­ti­to­la­to “Ge­sù e Israe­le”, eb­be una vi­cen­da edi­to­ria­le ab­ba­stan­za tor­men­ta­ta. Nel 1948, quan­do in­fi­ne com­par­ve, su­sci­tò ten­sio­ni, po­le­mi­che, an­che scon­tri. In quel li­bro c’e­ra pe­rò una ri­spo­sta al­la do­man­da da cui sia­mo par­ti­ti. Isaac so­ste­ne­va che la Shoah era sta­ta pos­si­bi­le in Eu­ro­pa per­ché le chie­se cri­stia­ne ave­va­no in­se­gna­to a di­sprez­za­re gli ebrei. Egli non po­ne­va, ov­via­men­te, un le­ga­me cau­sa­le, im­me­dia­to, di­ret­to, tra l’in­se­gna­men­to uf­fi­cia­le del­le chie­se cri­stia­ne e la Shoah, ma ne met­te­va in ri­lie­vo un aspet­to che giu­di­ca­va cru­cia­le. Il ge­no­ci­dio de­gli ebrei si era ve­ri­fi­ca­to per­ché le chie­se ave­va­no dif­fu­so un cli­ma, una cul­tu­ra, una men­ta­li­tà che ruo­ta­va at­tor­no a un’im­ma­gi­ne ne­ga­ti­va de­gli ebrei. Su que­sta ba­se era poi di­ven­ta­to fa­ci­le ra­di­ca­re un di­scor­so di ca­rat­te­re an­ti­se­mi­ta.
A suo giu­di­zio, in­som­ma, la le­zio­ne del di­sprez­zo, pro­po­sta uf­fi­cial­men­te nel­l’in­se­gna­men­to del­le chie­se cri­stia­ne, pre­pa­ra­va il ter­re­no af­fin­ché po­tes­se svi­lup­par­si quel raz­zi­smo an­ti­se­mi­ta che tro­ve­rà nel­le leg­gi raz­zia­li dei re­gi­mi to­ta­li­ta­ri di de­stra, il na­zi­smo, il fa­sci­smo, la sua più com­ple­ta rea­liz­za­zio­ne. Nel cor­so del­la sua in­da­gi­ne, Isaac si sof­fer­mò in par­ti­co­la­re sul cat­to­li­ce­si­mo, mag­gio­ri­ta­rio in Fran­cia. Tra i va­ri aspet­ti -la teo­lo­gia, l’e­se­ge­si bi­bli­ca, la ca­te­che­si, la pre­di­ca­zio­ne, ecc.- pre­se in con­si­de­ra­zio­ne an­che la li­tur­gia, esa­mi­nan­do l’im­ma­gi­ne de­gli ebrei che emer­ge­va nel cul­to pub­bli­co e uf­fi­cia­le del­la chie­sa. In Oc­ci­den­te si se­gui­va ge­ne­ral­men­te il ri­to la­ti­no, fa­cen­do ri­fe­ri­men­to al mes­sa­le sta­bi­li­to do­po il Con­ci­lio di Tren­to. Qui at­ti­rò la sua at­ten­zio­ne la spe­cia­le pre­ghie­ra per gli ebrei re­ci­ta­ta nel­la fun­zio­ne del Ve­ner­dì san­to.
Que­sta era la sua for­mu­la­zio­ne: “Pre­ghia­mo an­che per i per­fi­di giu­dei, per­ché il no­stro Dio e Si­gno­re tol­ga il ve­lo dai lo­ro cuo­ri e an­ch’es­si ri­co­no­sca­no Ge­sù no­stro Si­gno­re”. E pro­se­gui­va: “O Dio on­ni­po­ten­te ed eter­no, che non re­spin­gi nem­me­no la giu­dai­ca per­fi­dia dal­la tua mi­se­ri­cor­dia, ascol­ta le no­stre pre­ghie­re che ti pre­sen­tia­mo per quel po­po­lo ac­ce­ca­to, af­fin­ché, ri­co­no­sciu­ta la lu­ce del­la tua ve­ri­tà, che è Cri­sto, sia­no strap­pa­ti dal­le lo­ro te­ne­bre”.
Dal te­sto emer­ge­va dun­que una ca­rat­te­riz­za­zio­ne de­gli ebrei co­me per­fi­di. Que­sta qua­li­fi­ca­zio­ne ve­ni­va ri­pro­po­sta per ben due vol­te, sia nel­la par­te ini­zia­le, l’in­vi­ta­to­rio, in cui il ce­le­bran­te in­vi­ta­va a pre­ga­re per gli ebrei de­fi­nen­do­li co­me per­fi­di; sia nel­la col­let­ta, nel re­spon­so­rio, in cui tut­ta la co­mu­ni­tà pro­cla­ma­va che tan­ta era la mi­se­ri­cor­dia del Si­gno­re che non avreb­be re­spin­to nem­me­no la per­fi­dia giu­dai­ca. Ma co­sa vo­le­va di­re que­sto in­si­sti­to ri­chia­mo al­la per­fi­dia? Co­me è no­to, nel­le lin­gue vol­ga­ri il ter­mi­ne si­gni­fi­ca sleal­tà, cat­ti­ve­ria, pro­pen­sio­ne a in­gan­na­re, a sfrut­ta­re, a tra­di­re. La pre­ghie­ra of­fri­va dun­que un’im­ma­gi­ne for­te­men­te ne­ga­ti­va del po­po­lo ebrai­co.
Ora, una ca­rat­te­riz­za­zio­ne ne­ga­ti­va de­gli ebrei in una pre­ghie­ra del cul­to pub­bli­co e uf­fi­cia­le del­la Chie­sa co­me quel­la del Ve­ner­dì san­to ave­va un ef­fet­to po­ten­te. In pri­mo luo­go per la sua ri­pe­ti­ti­vi­tà: tut­ti gli an­ni in quel­la gior­na­ta del ci­clo li­tur­gi­co gli ebrei ve­ni­va­no pre­sen­ta­ti co­me per­fi­di. In una po­po­la­zio­ne spes­so anal­fa­be­ta, la li­tur­gia era una del­le vie con cui si tra­smet­te­va più fa­cil­men­te la dot­tri­na cat­to­li­ca e dun­que la ri­pe­ti­zio­ne ren­de­va age­vo­le edu­ca­re i fe­de­li a ri­te­ne­re che vi fos­se una stret­ta con­nes­sio­ne tra ebrei e per­fi­dia. C’e­ra poi un se­con­do ele­men­to, quel­lo del­la ve­ri­tà, nel sen­so che nel­la tra­di­zio­ne cat­to­li­ca ciò che si pre­ga coin­ci­de con ciò che si cre­de. Que­sta con­ce­zio­ne vie­ne espres­sa in un mot­to la­ti­no, lex oran­di lex cre­den­di, cioè la leg­ge del­la pre­ghie­ra è an­che la leg­ge del­la fe­de. Og­gi sap­pia­mo che al­l’o­ri­gi­ne quel mot­to ave­va un al­tro si­gni­fi­ca­to; ma, so­prat­tut­to do­po il Con­ci­lio di Tren­to, ven­ne in­te­so in un mo­do ri­gi­do: quan­to pro­po­sto nel­la li­tur­gia ap­par­te­ne­va al­la dot­tri­na, al­l’or­to­dos­sia, rac­chiu­de­va il nu­cleo del­la ve­ri­tà del­la fe­de. Que­sta pro­ie­zio­ne del­la giu­dai­ca per­fi­dia sul pia­no dot­tri­na­le era poi raf­for­za­ta dal­la sa­cra­li­tà del­la li­tur­gia: il cul­to, in quan­to mo­men­to che met­te in co­mu­ni­ca­zio­ne il di­vi­no con l’u­ma­no, in qual­che mo­do as­so­lu­tiz­za le for­mu­le che vi si espri­mo­no. La giu­dai­ca per­fi­dia di­ven­ta­va co­sì una ve­ri­tà dot­tri­na­le, che ap­pa­ri­va tan­to più in­tan­gi­bi­le in quan­to at­ti­nen­te al­la sfe­ra del sa­cro. In­fi­ne, non si può sot­to­va­lu­ta­re un ul­te­rio­re aspet­to: la di­men­sio­ne emo­ti­va del­le ce­ri­mo­nie del­la set­ti­ma­na san­ta, la set­ti­ma­na del­la pas­sio­ne. In par­ti­co­la­re il ri­to del Ve­ner­dì pre­ve­de­va una fun­zio­ne par­ti­co­lar­men­te sug­ge­sti­va. Una sua pe­cu­lia­ri­tà sta­va nel fat­to che la ce­le­bra­zio­ne del­la mes­sa -con cui so­li­ta­men­te ini­zia una so­len­ni­tà li­tur­gi­ca- era so­sti­tui­ta dal­la re­ci­ta­zio­ne di no­ve ora­zio­ni so­len­ni, tra cui fi­gu­ra­va an­che la pre­ghie­ra per gli ebrei. Poi tut­ti gli ele­men­ti fis­sa­ti per quel­la ce­ri­mo­nia, che già at­ti­ra­va l’at­ten­zio­ne per la sua sin­go­la­ri­tà, con­ver­ge­va­no nel sol­le­ci­ta­re la com­mo­zio­ne dei fe­de­li: era­no in­fat­ti di­ret­ti a coin­vol­ge­re il cre­den­te, su­sci­tan­do sen­ti­men­ti di do­lo­re e lut­to per la pas­sio­ne e la mor­te del Si­gno­re. Una si­mi­le par­te­ci­pa­zio­ne emo­ti­va fa­ci­li­ta­va l’ac­cet­ta­zio­ne, in qual­che mo­do an­che la di­la­ta­zio­ne, del­l’im­ma­gi­ne ne­ga­ti­va le­ga­ta al­la pro­cla­ma­zio­ne del­la giu­dai­ca per­fi­dia.
In­som­ma di­ver­si aspet­ti del ri­to del Ve­ner­dì san­to -ri­pe­ti­ti­vi­tà, sa­cra­li­tà, emo­ti­vi­tà-  con­ver­ge­va­no nel­l’im­pri­me­re for­te­men­te nel­la men­ta­li­tà e nel­la cul­tu­ra dei fe­de­li un at­teg­gia­men­to di ini­mi­ci­zia ver­so gli ebrei. Ora, par­ten­do da que­sto da­to, co­sa pro­po­ne il vo­lu­me? In estre­ma sin­te­si di­rei che cer­ca di in­tro­dur­re la sto­ria nel­la pro­cla­ma­zio­ne li­tur­gi­ca del­l’a­tem­po­ra­le ste­reo­ti­po del­la giu­dai­ca per­fi­dia. Ho cer­ca­to di ca­pi­re se nel cor­so del tem­po la rap­pre­sen­ta­zio­ne de­gli ebrei sot­to il se­gno del­la per­fi­dia -una rap­pre­sen­ta­zio­ne che ali­men­ta­va nei lo­ro con­fron­ti un at­teg­gia­men­to di osti­li­tà- ave­va avu­to ar­ti­co­la­zio­ni, va­ria­zio­ni, cam­bia­men­ti. C’e­ra sta­to un di­bat­ti­to pri­ma che Isaac sol­le­vas­se la que­stio­ne? E co­sa era suc­ces­so do­po il suo in­ter­ven­to? Ho co­sì po­tu­to ri­scon­tra­re che il te­ma del­la giu­dai­ca per­fi­dia ha al­le sue spal­le una sto­ria mol­to lun­ga, fat­ta an­che di ten­ta­ti­vi di mu­ta­re una pre­ghie­ra che ve­ni­va per­ce­pi­ta co­me un osta­co­lo a un cor­ret­to rap­por­to fra le due con­fes­sio­ni.
Nel­la ri­cer­ca ho in­di­vi­dua­to al­me­no tre mo­men­ti si­gni­fi­ca­ti­vi, ben pri­ma del­la Shoah, in cui lo ste­reo­ti­po del­la giu­dai­ca per­fi­dia era sta­to og­get­to di di­scus­sio­ne. Un pri­mo mo­men­to si col­lo­ca nel trien­nio gia­co­bi­no, quan­do le idee del­la Ri­vo­lu­zio­ne fran­ce­se en­tra­no in Ita­lia e si as­si­ste a un ri­le­van­te cam­bia­men­to isti­tu­zio­na­le nel rap­por­to tra cat­to­li­ce­si­mo e so­cie­tà. Si pas­sa al­lo­ra dal­la vi­sio­ne di una re­li­gio­ne di Sta­to a una pa­ri­fi­ca­zio­ne tra le re­li­gio­ni.
Non vi è sul­la que­stio­ne del­la per­fi­dia giu­dai­ca una pre­sa di po­si­zio­ne a li­vel­lo del go­ver­no cen­tra­le, né a Pa­ri­gi, né a Mi­la­no; ma so­prat­tut­to in Emi­lia Ro­ma­gna, nel­le dio­ce­si di Bo­lo­gna, Fer­ra­ra, Faen­za e Imo­la, al­cu­ni dei fun­zio­na­ri ri­ten­go­no che in un as­set­to co­sti­tu­zio­na­le che pre­ve­de la pa­ri­tà dei cul­ti, non sia le­ci­to pub­bli­ca­men­te of­fen­de­re i mem­bri di un’al­tra re­li­gio­ne. E co­sì chie­do­no e ot­ten­go­no dai ve­sco­vi che la “giu­dai­ca per­fi­dia” sia can­cel­la­ta dal­la pre­ghie­ra del Ve­ner­dì san­to. Era la Set­ti­ma­na san­ta del 1798. Per la pri­ma vol­ta nel­le chie­se di al­cu­ne dio­ce­si ita­lia­ne gli ebrei non era­no più pro­cla­ma­ti per­fi­di. C’è poi un’ap­pen­di­ce na­po­leo­ni­ca a que­sta vi­cen­da che ri­guar­da la To­sca­na. Ma non pos­so sof­fer­mar­mi su que­sto epi­so­dio e pas­so al se­con­do mo­men­to cui ho ac­cen­na­to. Si col­lo­ca tra la fi­ne del­l’Ot­to­cen­to e l’i­ni­zio del No­ve­cen­to, quan­do si af­fer­ma la sto­ria co­me di­sci­pli­na cri­ti­ca e scien­ti­fi­ca. L’Ot­to­cen­to è il se­co­lo del­la sto­ria non so­lo per la ri­le­van­za cen­tra­le che es­sa as­su­me nel­la cul­tu­ra del­l’e­po­ca, ma an­che per la pro­fes­sio­na­liz­za­zio­ne del­la sua pra­ti­ca. Gli sto­rio­gra­fi, aspi­ran­do a tra­smet­te­re ciò che ef­fet­ti­va­men­te è suc­ces­so in pas­sa­to, co­min­cia­no a do­tar­si de­gli stru­men­ti tec­ni­ci, frut­to di uno spe­ci­fi­co per­cor­so for­ma­ti­vo, che con­sen­to­no di re­sti­tui­re esat­ta­men­te gli ac­ca­di­men­ti. Al­lo­ra, ap­pli­can­do i nuo­vi me­to­di del­la sto­ria al­la li­tur­gia, qual­che stu­dio­so sco­pre una co­sa che non im­ma­gi­na­va, e cioè che nel­la li­tur­gia del­la Chie­sa del IV, V e VI se­co­lo, quan­do si par­la di “giu­dai­ca per­fi­dia”, si in­ten­de una co­sa mol­to di­ver­sa da ciò che si­gni­fi­ca “per­fi­dia” nel­le lin­gue vol­ga­ri. In la­ti­no “per­fi­dia” non vuol di­re per­fi­dia, ben­sì de­vian­za dal­la fe­de; il ter­mi­ne ha quin­di una qua­li­fi­ca­zio­ne teo­lo­gi­ca e dot­tri­na­le, non eti­ca. I “per­fi­di ebrei” nel­la chie­sa pri­mi­ti­va era­no co­lo­ro che non pos­se­de­va­no la ret­ta fe­de, non co­lo­ro che si com­por­ta­va­no in ma­nie­ra im­mo­ra­le. Non a ca­so nei pri­mi se­co­li del­l’e­ra cri­stia­na il ter­mi­ne si ap­pli­ca­va non so­lo agli ebrei, ma an­che agli ere­ti­ci, agli isla­mi­ci, in­som­ma a tut­ti quan­ti non pro­fes­sa­va­no l’or­to­dos­sa dot­tri­na cri­stia­na.
La con­sa­pe­vo­lez­za di que­sta di­scre­pan­za tra il sen­so ori­gi­na­rio del­la li­tur­gia del Ve­ner­dì san­to e il sen­so del­la pa­ro­la per­fi­dia nel­le lin­gue vol­ga­ri por­ta al ter­zo mo­men­to di cui vo­le­vo par­la­re. Sia­mo nel 1928, na­sce a Ro­ma un’as­so­cia­zio­ne che ha un cer­to suc­ces­so, si chia­ma la So­cie­tà de­gli ami­ci di Israe­le.
È un’as­so­cia­zio­ne di cat­to­li­ci, in par­ti­co­la­re di ec­cle­sia­sti­ci, dal mo­men­to che pos­so­no ade­rir­vi esclu­si­va­men­te i pre­ti (an­che se l’i­dea del­la sua fon­da­zio­ne ri­sa­le a una don­na ebrea con­ver­ti­ta al cat­to­li­ce­si­mo). I di­ri­gen­ti di que­sta so­cie­tà, or­mai per­sua­si del­le ac­qui­si­zio­ni del­l’in­da­gi­ne sto­ri­co-cri­ti­ca sul si­gni­fi­ca­to ori­gi­na­rio del­la pre­ghie­ra per gli ebrei, chie­do­no al­la su­pre­ma au­to­ri­tà del­la Chie­sa in ma­te­ria li­tur­gi­ca, la Con­gre­ga­zio­ne dei ri­ti, di cam­biar­ne il te­sto, so­sti­tuen­do la pa­ro­la “per­fi­di” con la pa­ro­la “in­fe­de­li” e la pa­ro­la “per­fi­dia” con la pa­ro­la “in­fe­del­tà”. Il di­ca­ste­ro ro­ma­no ri­spon­de po­si­ti­va­men­te, ri­te­nen­do cor­ret­to re­sti­tui­re nel ri­to del Ve­ner­dì san­to il sen­so pri­mi­ti­vo del­l’e­spres­sio­ne. Se­con­do le re­go­le del­la cu­ria ro­ma­na pe­rò, pre­sa que­sta de­ci­sio­ne, la Con­gre­ga­zio­ne pas­sa il dos­sier al San­t’Uf­fi­zio per un esa­me teo­lo­gi­co. Il San­t’Uf­fi­zio boc­cia su­bi­to la pro­po­sta. Nel­la di­scus­sio­ne tra i suoi mem­bri si af­fer­ma in­fat­ti la con­vin­zio­ne che la li­tur­gia è qual­che co­sa di sa­cro, quin­di di eter­no, di im­mu­ta­bi­le: nel cul­to si espri­me la ve­ri­tà e la ve­ri­tà non ha sto­ria, non può es­se­re cam­bia­ta. In con­clu­sio­ne, la ri­chie­sta del­la So­cie­tà de­gli ami­ci di Israe­le non può es­se­re esau­di­ta. An­zi è pe­ri­co­lo­sa, per­ché in­tro­du­ce il di­ve­ni­re nel­la di­men­sio­ne im­mo­bi­le del sa­cro.
Il San­t’Uf­fi­zio co­sì im­po­ne lo scio­gli­men­to del­la So­cie­tà e la ri­trat­ta­zio­ne dei con­sul­to­ri del­la Con­gre­ga­zio­ne che ave­va­no da­to pa­re­re po­si­ti­vo al cam­bia­men­to. Fra que­sti -val la pe­na di no­tar­lo- c’è il fu­tu­ro car­di­nal Schu­ster, il qua­le non so­lo ave­va so­ste­nu­to che oc­cor­re­va cor­reg­ge­re un te­sto che ave­va or­mai as­sun­to un di­ver­so si­gni­fi­ca­to; ma nei suoi li­bri di ar­go­men­to li­tur­gi­co -usci­ti con im­pri­ma­tur ec­cle­sia­sti­co- già scri­ve­va in­fe­del­tà al po­sto di per­fi­dia. Tut­ta­via an­che Schu­ster, per ob­be­dien­za, de­ci­de­rà di ri­trat­ta­re. La que­stio­ne del mu­ta­men­to del te­sto li­tur­gi­co sem­bra­va co­sì de­fi­ni­ti­va­men­te chiu­sa.
In par­ti­co­la­re al­la de­ci­sio­ne ro­ma­na si fa­rà ri­fe­ri­men­to nel mo­men­to in cui, nel 1938, si in­tro­du­co­no in Ita­lia le leg­gi raz­zia­li. Si apre al­lo­ra un con­fron­to tra il go­ver­no fa­sci­sta e la Chie­sa cat­to­li­ca. Non pos­so qui ri­co­strui­re il mo­do con cui si di­pa­na que­sta in­tri­ca­ta ma­tas­sa, quel­lo che mi pre­me sot­to­li­nea­re è un al­tro fat­to, e cioè che co­lo­ro che so­no in­te­res­sa­ti (sia da par­te cat­to­li­ca che da par­te fa­sci­sta) a tro­va­re un ter­re­no d’in­te­sa, una con­ver­gen­za su que­sto ar­go­men­to, fa­ran­no ri­fe­ri­men­to pro­prio al­la con­dan­na del­la pro­po­sta avan­za­ta dal­la So­cie­tà de­gli ami­ci di Israe­le. Ad esem­pio, il ge­sui­ta Tac­chi Ven­tu­ri, l’uo­mo di fi­du­cia del­la cu­ria ro­ma­na nei rap­por­ti con il re­gi­me fa­sci­sta, pur aven­do ri­ser­ve su pun­ti spe­ci­fi­ci del­le leg­gi raz­zia­li, tut­ta­via ri­tie­ne che in li­nea di prin­ci­pio sia con­di­vi­si­bi­le l’in­tro­du­zio­ne di una di­scri­mi­na­zio­ne ci­vi­le e po­li­ti­ca nel­la con­di­zio­ne de­gli ebrei. Dun­que ri­tie­ne si pos­sa as­si­cu­ra­re un’ap­pro­va­zio­ne ec­cle­sia­sti­ca al­la nor­ma­ti­va in­tro­dot­ta dal go­ver­no di Mus­so­li­ni. La via con cui ar­go­men­ta la te­si che è le­ci­to di­scri­mi­na­re gli ebrei par­te dal­la co­sta­ta­zio­ne che la lo­ro per­fi­dia è pro­cla­ma­ta so­len­ne­men­te dal­la li­tur­gia cat­to­li­ca. A suo av­vi­so il ri­fiu­to ro­ma­no del ten­ta­ti­vo di mu­ta­re la for­mu­la del­la pre­ghie­ra, ri­co­no­scen­do che gli ebrei, in quan­to per­fi­di, co­sti­tui­sco­no una mi­nac­cia al­la ret­ta con­vi­ven­za ci­vi­le, con­sen­te un so­stan­zia­le ap­pog­gio al­la le­gi­sla­zio­ne di­scri­mi­na­to­ria nei lo­ro con­fron­ti.
Na­tu­ral­men­te la sto­ria del­la di­scus­sio­ne sul­lo ste­reo­ti­po del­la giu­dai­ca per­fi­dia pre­sen­te nel­la li­tur­gia cat­to­li­ca non si ar­re­sta con le leg­gi raz­zia­li, ma pro­se­gue fi­no ai no­stri gior­ni. Si trat­ta di una vi­cen­da che pren­de ini­zio con la can­cel­la­zio­ne, vo­lu­ta da Gio­van­ni XXIII nel 1959, del ter­mi­ne dal­la fun­zio­ne li­tur­gi­ca del Ve­ner­dì san­to. Non pos­sia­mo qui ri­per­cor­re­re que­sto di­bat­ti­to, che pe­rò vie­ne ri­co­strui­to ana­li­ti­ca­men­te nel li­bro. Va­le in­ve­ce la pe­na di ri­spon­de­re a que­stio­ni par­ti­co­la­ri che la ri­cer­ca com­piu­ta aiu­ta a chia­ri­re. Una pri­ma que­stio­ne, spes­so sol­le­va­ta nel­l’o­pi­nio­ne pub­bli­ca, ri­guar­da la dif­fe­ren­za tra an­ti­giu­dai­smo e an­ti­se­mi­ti­smo, an­che per­ché in al­cu­ni am­bien­ti cat­to­li­ci si so­stie­ne che la chie­sa, pur aven­do pra­ti­ca­to l’an­ti­giu­dai­smo, non è mai sta­ta an­ti­se­mi­ta. An­che que­sto pro­ble­ma va col­lo­ca­to in una pro­spet­ti­va sto­ri­ca.
Con la Ri­vo­lu­zio­ne fran­ce­se, con l’e­tà na­po­leo­ni­ca e so­prat­tut­to con l’e­tà del­la Re­stau­ra­zio­ne, si pas­sa dal tra­di­zio­na­le an­ti­giu­dai­smo cat­to­li­co, cioè dal­la con­si­de­ra­zio­ne de­gli ebrei co­me pe­ri­co­lo­si dal pun­to di vi­sta re­li­gio­so, a una vi­sio­ne de­gli ebrei co­me pe­ri­co­lo­si dal pun­to di vi­sta po­li­ti­co e so­cia­le. Per­ché suc­ce­de que­sto? Il mec­ca­ni­smo, se vo­le­te, è frut­to di un ra­gio­na­men­to sem­pli­ci­sti­co: si con­fon­de il po­st con il prop­ter. Il ra­gio­na­men­to è il se­guen­te: sic­co­me con la Ri­vo­lu­zio­ne gli ebrei han­no ot­te­nu­to l’e­man­ci­pa­zio­ne, al­lo­ra la Ri­vo­lu­zio­ne è sta­ta cau­sa­ta da­gli ebrei. Chi ha trat­to van­tag­gio dal­l’Ot­tan­ta­no­ve? Co­lo­ro che pri­ma era­no nel ghet­to, co­lo­ro che pri­ma era­no li­mi­ta­ti nei lo­ro di­rit­ti: dun­que non pos­so­no che es­ser­ne la cau­sa. Ora, poi­ché la chie­sa con­si­de­ra la Ri­vo­lu­zio­ne l’i­ni­zio del pro­ces­so che ha por­ta­to al­l’al­lon­ta­na­men­to del­la so­cie­tà dal cat­to­li­ce­si­mo, co­lo­ro che so­no con­si­de­ra­ti gli ar­te­fi­ci del­la Ri­vo­lu­zio­ne deb­bo­no es­se­re com­bat­tu­ti. At­tra­ver­so que­sto ti­po di ana­li­si il mon­do cat­to­li­co ar­ri­va, al­la fi­ne del­l’Ot­to­cen­to, a pren­de­re par­te al­l’an­ti­se­mi­ti­smo po­li­ti­co. Si trat­ta di un fe­no­me­no che non è esclu­si­va­men­te cat­to­li­co -ba­sti pen­sa­re al­l’an­ti­se­mi­ti­smo di set­to­ri del so­cia­li­smo- ma a cui i cat­to­li­ci dan­no il lo­ro con­tri­bu­to. Gli ebrei -con­si­de­ra­ti co­me un tut­to, sen­za di­stin­gue­re in­di­vi­dui e grup­pi, luo­ghi e tem­pi- non so­no so­lo ne­mi­ci sot­to il pro­fi­lo re­li­gio­so, ma an­che sot­to il pro­fi­lo po­li­ti­co e so­cia­le: la chie­sa pas­sa co­sì dal­l’an­ti­giu­dai­smo al­l’an­ti­se­mi­ti­smo.
In que­sto mo­do an­che i cat­to­li­ci ri­cor­ro­no al­la pro­pa­gan­da di sen­ti­men­ti an­ti­se­mi­ti per ag­gre­ga­re e rac­co­glie­re con­sen­so a fa­vo­re dei lo­ro mo­vi­men­ti po­li­ti­ci.
Oc­cor­re pe­rò ag­giun­ge­re che, ac­can­to a que­sta ten­den­za, nel mon­do cat­to­li­co ne esi­ste un’al­tra, di se­gno op­po­sto, che si può qua­li­fi­ca­re “fi­lo­se­mi­ta”. Al­cu­ni am­bien­ti cat­to­li­ci si ren­do­no con­to che il mo­do con cui ci si rap­por­ta agli ebrei non è cri­stia­no, non è evan­ge­li­co. Ri­ten­go­no per­tan­to ne­ces­sa­rio ope­ra­re un cam­bia­men­to. Uno de­gli obiet­ti­vi del­la mia ri­cer­ca è sta­to quel­lo di mo­stra­re che cer­ta­men­te esi­ste un fi­lo­ne di an­ti­se­mi­ti­smo cat­to­li­co che pas­sa dal tra­di­zio­na­le an­ti­giu­dai­smo re­li­gio­so a in­trec­ciar­si con le nuo­ve for­me di an­ti­se­mi­ti­smo po­li­ti­co e so­cia­le; ma al con­tem­po esi­ste an­che un fi­lo­ne mi­no­ri­ta­rio, ta­lo­ra re­pres­so dal­l’au­to­ri­tà ec­cle­sia­sti­ca, e pe­rò pre­sen­te, che no­no­stan­te le scon­fit­te, di fron­te a cer­te cir­co­stan­ze, rie­mer­ge. È un fi­lo­ne che lot­ta af­fin­ché quel­l’an­ti­se­mi­ti­smo, che pu­re è co­sì dif­fu­so nel­la co­mu­ni­tà ec­cle­sia­le e tro­va dei pun­ti di ap­pog­gio nel go­ver­no del­la chie­sa, ven­ga ab­ban­do­na­to.
Ne tro­via­mo trac­cia per­si­no in uno dei mo­men­ti più si­gni­fi­ca­ti­vi, e an­che più tra­gi­ci, del rap­por­to tra cri­stia­ni ed ebrei: l’af­fai­re Drey­fuss. Si trat­ta del mo­men­to di mas­si­mo trion­fo del­l’an­ti­se­mi­ti­smo po­li­ti­co, in cui an­che i cat­to­li­ci ca­val­ca­no l’o­sti­li­tà an­ti­e­brai­ca per ot­te­ne­re con­sen­so. Al­la fi­ne del­l’Ot­to­cen­to, co­me è no­to, sul­l’on­da del­la Re­rum no­va­rum, na­sco­no in­fat­ti in va­rie pae­si mo­vi­men­ti de­mo­cra­ti­co-cri­stia­ni. In ta­li mo­vi­men­ti l’an­ti­se­mi­ti­smo è piut­to­sto for­te. Il ca­so più cla­mo­ro­so è la De­mo­cra­zia cri­stia­na fran­ce­se: nei suoi con­gres­si vie­ne chia­ma­to a par­la­re Dru­mont, un pro­fes­sio­ni­sta del­l’an­ti­se­mi­ti­smo, cioè un per­so­nag­gio che co­strui­sce le sue for­tu­ne, po­li­ti­che ed eco­no­mi­che, pro­prio at­tra­ver­so la dif­fu­sio­ne di li­bri, ri­vi­ste, opu­sco­li che in­ci­ta­no al­la lot­ta an­ti­se­mi­ta. Pur­tut­ta­via, an­che in que­sta fa­se di in­trec­cio tra cat­to­li­ce­si­mo e an­ti­se­mi­ti­smo, emer­ge un grup­po di cat­to­li­ci che si co­sti­tui­sce in co­mi­ta­to drey­fu­sar­do. Si trat­ta di una pic­co­la as­so­cia­zio­ne, ra­di­ca­ta so­prat­tut­to a Lio­ne: le­ga­ta al­la te­si di una com­pa­ti­bi­li­tà tra cat­to­li­ce­si­mo e di­rit­ti uma­ni, es­sa si im­pe­gna per­ché sia­no ga­ran­ti­ti i di­rit­ti fon­da­men­ta­li a Drey­fuss. Inol­tre si può ri­le­va­re un fat­to si­gni­fi­ca­ti­vo che ho cer­ca­to di met­te­re in ri­lie­vo nel li­bro: tra i più de­ci­si op­po­si­to­ri di Dru­mont, c’è an­che un ir­re­go­la­re del­la cul­tu­ra cat­to­li­ca co­me Léon Bloy. Il suo li­bro, “Le sa­lut par les juifs”, che pu­re non è te­ne­ro nei con­fron­ti de­gli ebrei, co­min­cia in­fat­ti con una lu­ci­da de­nun­cia del fat­to che Dru­mont ha tra­sfor­ma­to l’an­ti­se­mi­ti­smo in una lu­cro­sa pro­fes­sio­ne e che le sue con­ce­zio­ni non han­no nul­la da spar­ti­re con il cri­stia­ne­si­mo.
Esi­ste dun­que nel­la sto­ria del cat­to­li­ce­si­mo un mo­vi­men­to fi­lo­se­mi­ta che, pur mi­no­ri­ta­rio, con­se­gue a un cer­to pun­to il ri­sul­ta­to che vo­le­va ot­te­ne­re, fin dal 1788, Hen­ri-Bap­ti­ste Gré­goi­re. Que­sti, par­ro­co in Lo­re­na, uno dei luo­ghi do­ve era più pre­sen­te la co­mu­ni­tà ebrai­ca, al­l’e­po­ca scris­se un opu­sco­lo in cui af­fer­ma­va che non si po­te­va­no at­tri­bui­re agli ebrei ca­rat­te­ri­sti­che ge­ne­ra­li, do­ve­va­no es­se­re giu­di­ca­ti, co­me tut­ti gli uo­mi­ni, in quan­to sin­go­le per­so­ne ope­ran­ti in uno spa­zio e in un tem­po de­ter­mi­na­ti. Per ren­de­re poi mi­glio­ri gli ebrei che si com­por­ta­va­no ma­le, bi­so­gna­va ren­de­re mi­glio­ri i cri­stia­ni. Na­sce qui un orien­ta­men­to au­to­cri­ti­co, vol­to al­la ri­for­ma del­le po­si­zio­ni cat­to­li­che, che con­ti­nue­rà nel­l’e­po­ca suc­ces­si­va con va­rie mo­da­li­tà ed esi­ti al­ter­ni, ma che al­la fi­ne riu­sci­rà a rag­giun­ge­re l’o­biet­ti­vo au­spi­ca­to. In ef­fet­ti la ri­for­ma po­st-con­ci­lia­re del­la li­tur­gia, pro­mul­ga­ta da Pao­lo VI, è una te­sti­mo­nian­za del pro­fon­do mu­ta­men­to di at­teg­gia­men­ti ver­so gli ebrei, cui si co­min­cia ora a guar­da­re con oc­chio fra­ter­no e be­ne­vo­len­te. Gli in­ter­ven­ti su que­sta li­tur­gia nel­l’e­po­ca di Gio­van­ni Pao­lo II e Be­ne­det­to XVI han­no fat­to va­cil­la­re, pur sen­za scar­di­nar­li, que­sti ri­sul­ta­ti. Il rap­por­to con gli ebrei non è dun­que an­co­ra pie­na­men­te ri­sol­to, ma sen­za dub­bio nel­le po­si­zio­ni uf­fi­cia­li del­la chie­sa odier­na non c’è più al­cun spa­zio per l’an­ti­se­mi­ti­smo. È sta­to in­fat­ti espli­ci­ta­men­te e ri­pe­tu­ta­men­te con­dan­na­to.
La sto­ria ci re­sti­tui­sce, in­som­ma, a pro­po­si­to del rap­por­to tra cat­to­li­ci ed ebrei una real­tà com­ples­sa che di vol­ta in vol­ta, nel va­ria­re del­le si­tua­zio­ni sto­ri­che, pro­po­ne an­ti­giu­dai­smo, an­ti­se­mi­ti­smo, fi­lo­se­mi­ti­smo. Ma un’al­tra que­stio­ne spe­ci­fi­ca si de­ve a que­sto pro­po­si­to ap­pro­fon­di­re: per ca­pi­re cor­ret­ta­men­te le po­si­zio­ni del­la chie­sa oc­cor­re te­ne­re con­to an­che del­le sue ar­ti­co­la­zio­ni in­ter­ne. Ci si è ta­lo­ra chie­sti, co­me sia sta­to pos­si­bi­le, quan­do già l’an­ti­se­mi­ti­smo di­la­ga­va in Eu­ro­pa e si an­nun­cia­va la tra­ge­dia del­la Shoah, che la chie­sa ab­bia man­ca­to com­ple­ta­men­te di svol­ge­re un ruo­lo pro­fe­ti­co, ri­ve­lan­do­si in­ca­pa­ce di ve­de­re e ca­pi­re la por­ta­ta di quel­lo che sta­va suc­ce­den­do. In real­tà la chie­sa è una strut­tu­ra com­ples­sa in cui coe­si­sto­no va­ri li­vel­li di re­spon­sa­bi­li­tà di go­ver­no.
A li­vel­lo cen­tra­le, non c’è cer­ta­men­te sta­ta, fi­no al Con­ci­lio Va­ti­ca­no II, un scon­fes­sio­ne espli­ci­ta nei con­fron­ti del­l’on­da­ta an­ti­se­mi­ta che ha per­cor­so la cul­tu­ra eu­ro­pea (e non so­lo eu­ro­pea) a par­ti­re dal­la se­con­da me­tà del­l’Ot­to­cen­to. A que­ste da­te nel ma­gi­ste­ro pub­bli­co del pa­pa­to si re­gi­stra piut­to­sto un’in­di­ret­ta, ma ab­ba­stan­za per­ce­pi­bi­le, in­di­ca­zio­ne che gli ebrei so­no so­cial­men­te pe­ri­co­lo­si, dun­que vi si tro­va una qual­che for­ma di in­co­rag­gia­men­to a li­mi­tar­ne i di­rit­ti ci­vi­li. Quan­do il ma­gi­ste­ro pren­de­rà pub­bli­ca po­si­zio­ne su­gli ebrei si muo­ve­rà lun­go due li­nee; la pri­ma si fon­da sul­la de­nun­cia del­le vio­len­ze: gli ebrei so­no pe­ri­co­lo­si, oc­cor­ro­no for­me di li­mi­ta­zio­ne del­la lo­ro ca­pa­ci­tà giu­ri­di­ca, ma non de­ve es­se­re usa­ta vio­len­za nei lo­ro con­fron­ti. Si può cer­to tro­va­re qui uno dei pun­ti del­l’am­bi­gui­tà del ma­gi­ste­ro pub­bli­co e uf­fi­cia­le del­la Chie­sa. In ef­fet­ti ci tro­via­mo da­van­ti a una de­nun­cia del­la vio­len­za con­tro gli ebrei che non si tra­du­ce in una pre­sa d’at­to che la di­chia­ra­zio­ne di ini­mi­ci­zia, di cui si è in real­tà por­ta­to­ri, può con­dur­re pro­prio a quel­la vio­len­za che si ri­pro­va. Se è in­dub­bio che l’au­to­ri­tà ec­cle­sia­sti­ca ha con­dan­na­to le vio­len­za an­ti­e­brai­che, re­sta il fat­to che il suo mes­sag­gio in­de­bo­li­va que­sto ri­chia­mo.
In se­con­do luo­go, il ma­gi­ste­ro pub­bli­co e uf­fi­cia­le del­la chie­sa si è espres­so con­tro l’an­ti­se­mi­ti­smo di ti­po raz­zi­sti­co. Ma an­che in que­sto ca­so il suo in­se­gna­men­to non è sta­to pri­vo di am­bi­gui­tà.
Nel­l’e­tà di Pio XI, ad esem­pio, il pa­pa­to pro­cla­ma l’e­si­sten­za di un an­ti­se­mi­ti­smo il­le­ci­to, che va com­bat­tu­to (ap­pun­to quel­lo a ba­se bio­lo­gi­ca), ma poi so­stie­ne an­che l’e­si­sten­za di un an­ti­se­mi­ti­smo le­ci­to, mo­ral­men­te ac­cet­ta­bi­le, per­fi­no lo­de­vo­le. Ta­le an­ti­se­mi­ti­smo si in­di­riz­za ­­-senza fa­re vio­len­za nei con­fron­ti de­gli ebrei, an­zi, con­dan­nan­do­la- a pren­de­re mi­su­re di ti­po giu­ri­di­co per li­mi­tar­ne i di­rit­ti. Ma una vol­ta che si di­stin­gue tra un an­ti­se­mi­ti­smo ve­ro e un an­ti­se­mi­ti­smo fal­so, uno le­ci­to e uno il­le­ci­to, si fa dav­ve­ro un’o­pe­ra­zio­ne di lot­ta nei con­fron­ti del­l’an­ti­se­mi­ti­smo? In real­tà, quan­do la le­zio­ne del di­sprez­zo, per ri­pren­de­re le pa­ro­le di Isaac, ha mes­so in mo­to pro­fon­de pul­sio­ni di osti­li­tà, con­trap­po­si­zio­ne, av­ver­sio­ne, ini­mi­ci­zia, la con­vin­zio­ne di po­ter fre­na­re gli istin­ti giu­deo­fo­bi­ci, iso­lan­do­ne la de­ge­ne­ra­zio­ne vio­len­ta e raz­zi­sti­ca, di­ven­ta una pre­te­sa ir­rea­li­sti­ca.
So­lo la tra­gi­ca espe­rien­za del­la Shoah ha con­dot­to Ro­ma a met­te­re in que­stio­ne la per­sua­sio­ne di po­ter mo­ra­liz­za­re l’an­ti­se­mi­ti­smo, di­stin­guen­do al suo in­ter­no una for­ma cor­ret­ta e una for­ma con­dan­na­bi­le. Sia pu­re con fa­ti­ca e len­ta­men­te, an­che il ma­gi­ste­ro ec­cle­sia­sti­co ha pre­so at­to che si era ri­ve­la­ta fal­la­ce la con­vin­zio­ne di con­trol­la­re le mo­da­li­tà di un an­ti­se­mi­ti­smo che non ve­ni­va ri­get­ta­to in bloc­co, ma so­lo nel­le for­me giu­di­ca­te in­com­pa­ti­bi­li con l’e­ti­ca cri­stia­na. Di qui il mu­ta­men­to di at­teg­gia­men­ti che si è im­po­sto a par­ti­re da­gli an­ni Ses­san­ta del No­ve­cen­to. Ma pro­prio que­sto per­cor­so in­vi­ta a una con­si­de­ra­zio­ne di fon­do. Non è pos­si­bi­le pro­iet­ta­re sul pas­sa­to le ac­qui­si­zio­ni re­cen­ti. Non si trat­ta so­lo di un astrat­to ri­spet­to del­la ve­ri­tà sto­ri­ca, che pu­re è un va­lo­re non tra­scu­ra­bi­le; so­lo la con­sa­pe­vo­lez­za che le con­qui­ste cui si è ar­ri­va­ti so­no il frut­to di un pro­ces­so che è sca­tu­ri­to dal­la vo­lon­tà di cor­reg­ge­re gli er­ro­ri com­piu­ti può co­sti­tui­re la ba­se per man­te­ner­le. La cor­ret­ta co­no­scen­za del­l’an­ti­se­mi­ti­smo pas­sa­to è la via che ne im­pe­di­sce la ri­na­sci­ta.
Ma, per tor­na­re al pun­to in que­stio­ne, se dal go­ver­no cen­tra­le del­la chie­sa pas­sia­mo ad al­tri li­vel­li di re­spon­sa­bi­li­tà, a quel­lo epi­sco­pa­le, ad esem­pio, ri­tro­via­mo po­si­zio­ni mol­to ar­ti­co­la­te e dif­fe­ren­zia­te. Ac­can­to a or­di­na­ri, co­me il pa­triar­ca di Ve­ne­zia, Piaz­za, al­l’e­po­ca del fa­sci­smo, o il ve­sco­vo Car­li, du­ran­te il Va­ti­ca­no II, di cui è in­ne­ga­bi­le l’an­ti­se­mi­ti­smo, ci so­no an­che ve­sco­vi che pra­ti­ca­no il fi­lo­se­mi­ti­smo. Il ve­sco­vo di Cre­mo­na, Bo­ro­mel­li, pro­prio al­l’e­po­ca del ca­so Drey­fuss e del­le vi­cen­de del par­ti­to so­cia­le cri­stia­no au­stria­co, in se­gui­to a una se­rie di viag­gi che in­tra­pren­de in Fran­cia, Sviz­ze­ra e a Vien­na, pub­bli­ca, una vol­ta rien­tra­to in Ita­lia, un li­bro in cui so­stie­ne che l’an­ti­se­mi­ti­smo non è cri­stia­no. Qui non si di­stin­gue tra un an­ti­se­mi­ti­smo le­ci­to e uno il­le­ci­to. L’an­ti­se­mi­ti­smo, in quan­to ta­le, è giu­di­ca­to an­ti­te­ti­co al cri­stia­ne­si­mo.
An­co­ra più fra­sta­glia­ta la si­tua­zio­ne se guar­dia­no ai fe­de­li co­mu­ni. Non è dif­fi­ci­le in­di­vi­dua­re du­ran­te il ven­ten­nio fa­sci­sta una se­rie di in­tel­let­tua­li cat­to­li­ci -un esem­pio: il di­ret­to­re del­la “Ras­se­gna na­zio­na­le”, De Ros­si del­l’Ar­no- che non so­lo han­no ma­ni­fe­sta­to il lo­ro an­ti­se­mi­ti­smo, ma non han­no nem­me­no esi­ta­to a pro­cla­ma­re, in con­trap­po­si­zio­ne a quan­to so­ste­ne­va Ro­ma, la pie­na con­ci­lia­bi­li­tà tra re­li­gio­ne cat­to­li­ca e an­ti­se­mi­ti­smo raz­zi­sta. Tut­ta­via pos­sia­mo an­che in­di­vi­dua­re per­so­nag­gi con ben al­tri orien­ta­men­ti.
Già nel ’33 Edi­th Stein, una ebrea cat­to­li­ca di straor­di­na­ria fi­nez­za in­tel­let­tua­le, in­vo­ca­va da Pio XI una pa­ro­la di con­dan­na del­le leg­gi raz­zia­li na­zi­ste, lan­cian­do un pre­ci­so mo­ni­to: se non si de­nun­cia l’an­ti­se­mi­ti­smo, il si­len­zio sul­la per­se­cu­zio­ne de­gli ebrei ver­rà rim­pro­ve­ra­to al­la chie­sa. A que­sto pro­po­si­to si de­ve ri­cor­da­re che an­che il car­di­na­le Tis­se­rant, uo­mo di cu­ria, pre­fet­to del­la Con­gre­ga­zio­ne per la chie­sa orien­ta­le, scri­ve­va nel 1940 al­l’ar­ci­ve­sco­vo di Pa­ri­gi che la San­ta se­de avreb­be pa­ga­to per la po­li­ti­ca di co­mo­do che ave­va se­gui­to da­van­ti al­la per­se­cu­zio­ne an­ti­e­brai­ca. Dun­que, an­che per­so­nag­gi che ave­va­no ef­fet­ti­vi ruo­li di go­ver­no -Tis­se­rant ap­par­ve co­me pa­pa­bi­le nel con­cla­ve che eles­se Gio­van­ni XXIII- pro­po­ne­va­no li­nee che tro­va­no ri­spon­den­za in at­teg­gia­men­ti in­no­va­ti­vi cir­co­lan­ti nel mon­do cat­to­li­co.
In­som­ma, la real­tà ec­cle­sia­le si pre­sen­ta mol­to com­po­si­ta, mol­to ar­ti­co­la­ta, mol­to fra­sta­glia­ta. Va ri­co­strui­ta in tut­ta la sua com­ples­si­tà per giun­ge­re al­l’e­spres­sio­ne di un giu­di­zio sto­ri­co in gra­do di evi­ta­re ba­na­liz­za­zio­ni, sem­pli­fi­ca­zio­ni, ge­ne­ra­liz­za­zio­ni.  Ma cre­do so­prat­tut­to che la ri­co­stru­zio­ne sto­ri­ca non deb­ba es­se­re fi­na­liz­za­ta al­la for­mu­la­zio­ne di un giu­di­zio mo­ra­le. Il com­pi­to del­la sto­ria è di re­sti­tui­re, nel­la ma­nie­ra più pre­ci­sa pos­si­bi­le, quel­lo che dav­ve­ro è ac­ca­du­to, aste­nen­do­si dal­l’as­sol­ve­re o dal con­dan­na­re i per­so­nag­gi pre­si in con­si­de­ra­zio­ne. Il pri­vi­le­gio di non es­se­re coin­vol­ti di­ret­ta­men­te nel­le vi­cen­de in esa­me ci con­sen­te og­gi di pro­va­re a es­se­re più vi­ci­ni a que­sti uo­mi­ni che si so­no tro­va­ti nel­le dram­ma­ti­che con­di­zio­ni di do­ver fa­re del­le scel­te da cui di­pen­de­va la vi­ta o la mor­te, quin­di di pro­va­re a ca­pi­re per­ché le han­no fat­te, di ve­de­re a qua­li ri­sul­ta­ti han­no por­ta­to e, in­fi­ne, di trar­ne un am­mae­stra­men­to. Cre­do sia que­sto il com­pi­to che ci spet­ta: guar­da­re al pas­sa­to nel­la per­sua­sio­ne che so­lo sa­pe­re co­sa è ef­fet­ti­va­men­te suc­ces­so ci con­sen­te di edi­fi­ca­re un fu­tu­ro di­ver­so e mi­glio­re.

tutti gli anni in quella giornata
del ciclo liturgico
gli ebrei venivano presentati come perfidi

chiedono
e ottengono dai vescovi che
la "giudaica perfidia"
sia cancellata dalla preghiera del Venerdì santo

si passa dal tradizionale anti-giudaismo cattolico
a una visione degli ebrei pericolosi
dal punto
di vista politico
e sociale

l'autorità ecclesiastica ha condannato
le violenze antiebraiche, ma il suo messaggio indeboliva
il richiamo

nei congressi della Democrazia cristiana francese viene chiamato
a parlare Drumont, professionista dell'anti-
semitismo

Tisserant scriveva
nel '40
che la Santa sede avrebbe pagato
la politica
di comodo che aveva seguito davanti alla persecuzione