Qui sotto il video della presentazione tenutasi venerdì 30 gennaio 2015 alle ore 18 al Centro culturale San Francesco di Forlì. Sotto al video, la trascrizione dell’intervento pubblicata su Una città n. 221, aprile 2015.
Daniele Menozzi presenta il suo libro: “Giudaica perfidia. Uno stereotipo antisemita fra liturgia e storia”. Incontro organizzato dalla Fondazione Alfred Lewin.
«Preghiamo anche per i perfidi giudei», così recita nel venerdì santo il Missale romanum di Pio V, pubblicato nel 1570, sintetizzando l’immagine degli ebrei nella liturgia latina. Stanno qui le radici di uno stereotipo antisemita che le traduzioni in volgare dei testi liturgici introiettano nella mentalità cattolica. Ma dal tardo Settecento la cultura cattolica comincia a interrogarsi su questo «insegnamento del disprezzo» trasmesso dal culto pubblico e ufficiale della chiesa. Gli eventi culminati nella Shoah avviano poi un decisivo confronto con la storia, portando a un riesame del rapporto con gli ebrei. Lo testimoniano tormentati rifacimenti della preghiera del venerdì santo da Giovanni XXIII fino ai nostri giorni.
Daniele Menozzi, insegna Storia contemporanea alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Con il Mulino ha pubblicato: «Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti» (2008) e «Chiesa e diritti umani. Legge naturale e modernità politica dalla Rivoluzione francese ai nostri giorni» (2012).
LA LEZIONE
DEL DISPREZZO

Quella formulazione, “preghiamo per i perfidi ebrei”, ripetuta ogni Settimana santa, alimentando la cultura del disprezzo, finì per preparare il terreno per il razzismo antisemita;
un incredibile errore di traduzione che pure non si volle correggere e quell’illusione di poter distinguere
tra antisemitismo lecito e illecito; l’importanza di ricordare, accanto a questa tradizione, anche quella, pur minoritaria,
sinceramente filosemita e autocritica.
Intervento di Daniele Menozzi.
Daniele Menozzi insegna Storia contemporanea alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Con Il Mulino ha pubblicato: Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti (2008), Chiesa e diritti umani. Legge naturale e modernità politica dalla Rivoluzione francese ai nostri giorni (2012). Pubblichiamo l’intervento da lui tenuto a Forlì il 30 gennaio scorso in occasione della presentazione del volume Giudaica perfidia. Uno stereotipo antisemita fra liturgia e storia (2014), organizzata dalla Fondazione Alfred Lewin.
Il volume è nato da una domanda di fondo: come è stato possibile che in Europa, una terra tutto sommato cristiana, dove gli elementi di fratellanza dovrebbero rappresentare la cifra caratteristica e tipica della convivenza comune, si sia potuta verificare la tragedia della Shoah? Già all’indomani della Seconda guerra mondiale la questione era stata posta. Una delle risposte -naturalmente non la sola- veniva avanzata da un ebreo francese, Jules Isaac, profondamente colpito anche sul piano personale da quell’evento: in seguito alle leggi razziali promosse dal governo di Vichy, aveva perso il lavoro di alto funzionario nel ministero dell’educazione e, dopo la deportazione, una buona parte della sua famiglia era morta nei campi di concentramento. Quasi come atto di liberazione rispetto ai drammi personali che aveva vissuto, Isaac si dedicò a indagare le ragioni della Shoah. Non fu una scelta facile. Il suo primo libro sulla questione, intitolato “Gesù e Israele”, ebbe una vicenda editoriale abbastanza tormentata. Nel 1948, quando infine comparve, suscitò tensioni, polemiche, anche scontri. In quel libro c’era però una risposta alla domanda da cui siamo partiti. Isaac sosteneva che la Shoah era stata possibile in Europa perché le chiese cristiane avevano insegnato a disprezzare gli ebrei. Egli non poneva, ovviamente, un legame causale, immediato, diretto, tra l’insegnamento ufficiale delle chiese cristiane e la Shoah, ma ne metteva in rilievo un aspetto che giudicava cruciale. Il genocidio degli ebrei si era verificato perché le chiese avevano diffuso un clima, una cultura, una mentalità che ruotava attorno a un’immagine negativa degli ebrei. Su questa base era poi diventato facile radicare un discorso di carattere antisemita.
A suo giudizio, insomma, la lezione del disprezzo, proposta ufficialmente nell’insegnamento delle chiese cristiane, preparava il terreno affinché potesse svilupparsi quel razzismo antisemita che troverà nelle leggi razziali dei regimi totalitari di destra, il nazismo, il fascismo, la sua più completa realizzazione. Nel corso della sua indagine, Isaac si soffermò in particolare sul cattolicesimo, maggioritario in Francia. Tra i vari aspetti -la teologia, l’esegesi biblica, la catechesi, la predicazione, ecc.- prese in considerazione anche la liturgia, esaminando l’immagine degli ebrei che emergeva nel culto pubblico e ufficiale della chiesa. In Occidente si seguiva generalmente il rito latino, facendo riferimento al messale stabilito dopo il Concilio di Trento. Qui attirò la sua attenzione la speciale preghiera per gli ebrei recitata nella funzione del Venerdì santo.
Questa era la sua formulazione: “Preghiamo anche per i perfidi giudei, perché il nostro Dio e Signore tolga il velo dai loro cuori e anch’essi riconoscano Gesù nostro Signore”. E proseguiva: “O Dio onnipotente ed eterno, che non respingi nemmeno la giudaica perfidia dalla tua misericordia, ascolta le nostre preghiere che ti presentiamo per quel popolo accecato, affinché, riconosciuta la luce della tua verità, che è Cristo, siano strappati dalle loro tenebre”.
Dal testo emergeva dunque una caratterizzazione degli ebrei come perfidi. Questa qualificazione veniva riproposta per ben due volte, sia nella parte iniziale, l’invitatorio, in cui il celebrante invitava a pregare per gli ebrei definendoli come perfidi; sia nella colletta, nel responsorio, in cui tutta la comunità proclamava che tanta era la misericordia del Signore che non avrebbe respinto nemmeno la perfidia giudaica. Ma cosa voleva dire questo insistito richiamo alla perfidia? Come è noto, nelle lingue volgari il termine significa slealtà, cattiveria, propensione a ingannare, a sfruttare, a tradire. La preghiera offriva dunque un’immagine fortemente negativa del popolo ebraico.
Ora, una caratterizzazione negativa degli ebrei in una preghiera del culto pubblico e ufficiale della Chiesa come quella del Venerdì santo aveva un effetto potente. In primo luogo per la sua ripetitività: tutti gli anni in quella giornata del ciclo liturgico gli ebrei venivano presentati come perfidi. In una popolazione spesso analfabeta, la liturgia era una delle vie con cui si trasmetteva più facilmente la dottrina cattolica e dunque la ripetizione rendeva agevole educare i fedeli a ritenere che vi fosse una stretta connessione tra ebrei e perfidia. C’era poi un secondo elemento, quello della verità, nel senso che nella tradizione cattolica ciò che si prega coincide con ciò che si crede. Questa concezione viene espressa in un motto latino, lex orandi lex credendi, cioè la legge della preghiera è anche la legge della fede. Oggi sappiamo che all’origine quel motto aveva un altro significato; ma, soprattutto dopo il Concilio di Trento, venne inteso in un modo rigido: quanto proposto nella liturgia apparteneva alla dottrina, all’ortodossia, racchiudeva il nucleo della verità della fede. Questa proiezione della giudaica perfidia sul piano dottrinale era poi rafforzata dalla sacralità della liturgia: il culto, in quanto momento che mette in comunicazione il divino con l’umano, in qualche modo assolutizza le formule che vi si esprimono. La giudaica perfidia diventava così una verità dottrinale, che appariva tanto più intangibile in quanto attinente alla sfera del sacro. Infine, non si può sottovalutare un ulteriore aspetto: la dimensione emotiva delle cerimonie della settimana santa, la settimana della passione. In particolare il rito del Venerdì prevedeva una funzione particolarmente suggestiva. Una sua peculiarità stava nel fatto che la celebrazione della messa -con cui solitamente inizia una solennità liturgica- era sostituita dalla recitazione di nove orazioni solenni, tra cui figurava anche la preghiera per gli ebrei. Poi tutti gli elementi fissati per quella cerimonia, che già attirava l’attenzione per la sua singolarità, convergevano nel sollecitare la commozione dei fedeli: erano infatti diretti a coinvolgere il credente, suscitando sentimenti di dolore e lutto per la passione e la morte del Signore. Una simile partecipazione emotiva facilitava l’accettazione, in qualche modo anche la dilatazione, dell’immagine negativa legata alla proclamazione della giudaica perfidia.
Insomma diversi aspetti del rito del Venerdì santo -ripetitività, sacralità, emotività- convergevano nell’imprimere fortemente nella mentalità e nella cultura dei fedeli un atteggiamento di inimicizia verso gli ebrei. Ora, partendo da questo dato, cosa propone il volume? In estrema sintesi direi che cerca di introdurre la storia nella proclamazione liturgica dell’atemporale stereotipo della giudaica perfidia. Ho cercato di capire se nel corso del tempo la rappresentazione degli ebrei sotto il segno della perfidia -una rappresentazione che alimentava nei loro confronti un atteggiamento di ostilità- aveva avuto articolazioni, variazioni, cambiamenti. C’era stato un dibattito prima che Isaac sollevasse la questione? E cosa era successo dopo il suo intervento? Ho così potuto riscontrare che il tema della giudaica perfidia ha alle sue spalle una storia molto lunga, fatta anche di tentativi di mutare una preghiera che veniva percepita come un ostacolo a un corretto rapporto fra le due confessioni.
Nella ricerca ho individuato almeno tre momenti significativi, ben prima della Shoah, in cui lo stereotipo della giudaica perfidia era stato oggetto di discussione. Un primo momento si colloca nel triennio giacobino, quando le idee della Rivoluzione francese entrano in Italia e si assiste a un rilevante cambiamento istituzionale nel rapporto tra cattolicesimo e società. Si passa allora dalla visione di una religione di Stato a una parificazione tra le religioni.
Non vi è sulla questione della perfidia giudaica una presa di posizione a livello del governo centrale, né a Parigi, né a Milano; ma soprattutto in Emilia Romagna, nelle diocesi di Bologna, Ferrara, Faenza e Imola, alcuni dei funzionari ritengono che in un assetto costituzionale che prevede la parità dei culti, non sia lecito pubblicamente offendere i membri di un’altra religione. E così chiedono e ottengono dai vescovi che la “giudaica perfidia” sia cancellata dalla preghiera del Venerdì santo. Era la Settimana santa del 1798. Per la prima volta nelle chiese di alcune diocesi italiane gli ebrei non erano più proclamati perfidi. C’è poi un’appendice napoleonica a questa vicenda che riguarda la Toscana. Ma non posso soffermarmi su questo episodio e passo al secondo momento cui ho accennato. Si colloca tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, quando si afferma la storia come disciplina critica e scientifica. L’Ottocento è il secolo della storia non solo per la rilevanza centrale che essa assume nella cultura dell’epoca, ma anche per la professionalizzazione della sua pratica. Gli storiografi, aspirando a trasmettere ciò che effettivamente è successo in passato, cominciano a dotarsi degli strumenti tecnici, frutto di uno specifico percorso formativo, che consentono di restituire esattamente gli accadimenti. Allora, applicando i nuovi metodi della storia alla liturgia, qualche studioso scopre una cosa che non immaginava, e cioè che nella liturgia della Chiesa del IV, V e VI secolo, quando si parla di “giudaica perfidia”, si intende una cosa molto diversa da ciò che significa “perfidia” nelle lingue volgari. In latino “perfidia” non vuol dire perfidia, bensì devianza dalla fede; il termine ha quindi una qualificazione teologica e dottrinale, non etica. I “perfidi ebrei” nella chiesa primitiva erano coloro che non possedevano la retta fede, non coloro che si comportavano in maniera immorale. Non a caso nei primi secoli dell’era cristiana il termine si applicava non solo agli ebrei, ma anche agli eretici, agli islamici, insomma a tutti quanti non professavano l’ortodossa dottrina cristiana.
La consapevolezza di questa discrepanza tra il senso originario della liturgia del Venerdì santo e il senso della parola perfidia nelle lingue volgari porta al terzo momento di cui volevo parlare. Siamo nel 1928, nasce a Roma un’associazione che ha un certo successo, si chiama la Società degli amici di Israele.
È un’associazione di cattolici, in particolare di ecclesiastici, dal momento che possono aderirvi esclusivamente i preti (anche se l’idea della sua fondazione risale a una donna ebrea convertita al cattolicesimo). I dirigenti di questa società, ormai persuasi delle acquisizioni dell’indagine storico-critica sul significato originario della preghiera per gli ebrei, chiedono alla suprema autorità della Chiesa in materia liturgica, la Congregazione dei riti, di cambiarne il testo, sostituendo la parola “perfidi” con la parola “infedeli” e la parola “perfidia” con la parola “infedeltà”. Il dicastero romano risponde positivamente, ritenendo corretto restituire nel rito del Venerdì santo il senso primitivo dell’espressione. Secondo le regole della curia romana però, presa questa decisione, la Congregazione passa il dossier al Sant’Uffizio per un esame teologico. Il Sant’Uffizio boccia subito la proposta. Nella discussione tra i suoi membri si afferma infatti la convinzione che la liturgia è qualche cosa di sacro, quindi di eterno, di immutabile: nel culto si esprime la verità e la verità non ha storia, non può essere cambiata. In conclusione, la richiesta della Società degli amici di Israele non può essere esaudita. Anzi è pericolosa, perché introduce il divenire nella dimensione immobile del sacro.
Il Sant’Uffizio così impone lo scioglimento della Società e la ritrattazione dei consultori della Congregazione che avevano dato parere positivo al cambiamento. Fra questi -val la pena di notarlo- c’è il futuro cardinal Schuster, il quale non solo aveva sostenuto che occorreva correggere un testo che aveva ormai assunto un diverso significato; ma nei suoi libri di argomento liturgico -usciti con imprimatur ecclesiastico- già scriveva infedeltà al posto di perfidia. Tuttavia anche Schuster, per obbedienza, deciderà di ritrattare. La questione del mutamento del testo liturgico sembrava così definitivamente chiusa.
In particolare alla decisione romana si farà riferimento nel momento in cui, nel 1938, si introducono in Italia le leggi razziali. Si apre allora un confronto tra il governo fascista e la Chiesa cattolica. Non posso qui ricostruire il modo con cui si dipana questa intricata matassa, quello che mi preme sottolineare è un altro fatto, e cioè che coloro che sono interessati (sia da parte cattolica che da parte fascista) a trovare un terreno d’intesa, una convergenza su questo argomento, faranno riferimento proprio alla condanna della proposta avanzata dalla Società degli amici di Israele. Ad esempio, il gesuita Tacchi Venturi, l’uomo di fiducia della curia romana nei rapporti con il regime fascista, pur avendo riserve su punti specifici delle leggi razziali, tuttavia ritiene che in linea di principio sia condivisibile l’introduzione di una discriminazione civile e politica nella condizione degli ebrei. Dunque ritiene si possa assicurare un’approvazione ecclesiastica alla normativa introdotta dal governo di Mussolini. La via con cui argomenta la tesi che è lecito discriminare gli ebrei parte dalla costatazione che la loro perfidia è proclamata solennemente dalla liturgia cattolica. A suo avviso il rifiuto romano del tentativo di mutare la formula della preghiera, riconoscendo che gli ebrei, in quanto perfidi, costituiscono una minaccia alla retta convivenza civile, consente un sostanziale appoggio alla legislazione discriminatoria nei loro confronti.
Naturalmente la storia della discussione sullo stereotipo della giudaica perfidia presente nella liturgia cattolica non si arresta con le leggi razziali, ma prosegue fino ai nostri giorni. Si tratta di una vicenda che prende inizio con la cancellazione, voluta da Giovanni XXIII nel 1959, del termine dalla funzione liturgica del Venerdì santo. Non possiamo qui ripercorrere questo dibattito, che però viene ricostruito analiticamente nel libro. Vale invece la pena di rispondere a questioni particolari che la ricerca compiuta aiuta a chiarire. Una prima questione, spesso sollevata nell’opinione pubblica, riguarda la differenza tra antigiudaismo e antisemitismo, anche perché in alcuni ambienti cattolici si sostiene che la chiesa, pur avendo praticato l’antigiudaismo, non è mai stata antisemita. Anche questo problema va collocato in una prospettiva storica.
Con la Rivoluzione francese, con l’età napoleonica e soprattutto con l’età della Restaurazione, si passa dal tradizionale antigiudaismo cattolico, cioè dalla considerazione degli ebrei come pericolosi dal punto di vista religioso, a una visione degli ebrei come pericolosi dal punto di vista politico e sociale. Perché succede questo? Il meccanismo, se volete, è frutto di un ragionamento semplicistico: si confonde il post con il propter. Il ragionamento è il seguente: siccome con la Rivoluzione gli ebrei hanno ottenuto l’emancipazione, allora la Rivoluzione è stata causata dagli ebrei. Chi ha tratto vantaggio dall’Ottantanove? Coloro che prima erano nel ghetto, coloro che prima erano limitati nei loro diritti: dunque non possono che esserne la causa. Ora, poiché la chiesa considera la Rivoluzione l’inizio del processo che ha portato all’allontanamento della società dal cattolicesimo, coloro che sono considerati gli artefici della Rivoluzione debbono essere combattuti. Attraverso questo tipo di analisi il mondo cattolico arriva, alla fine dell’Ottocento, a prendere parte all’antisemitismo politico. Si tratta di un fenomeno che non è esclusivamente cattolico -basti pensare all’antisemitismo di settori del socialismo- ma a cui i cattolici danno il loro contributo. Gli ebrei -considerati come un tutto, senza distinguere individui e gruppi, luoghi e tempi- non sono solo nemici sotto il profilo religioso, ma anche sotto il profilo politico e sociale: la chiesa passa così dall’antigiudaismo all’antisemitismo.
In questo modo anche i cattolici ricorrono alla propaganda di sentimenti antisemiti per aggregare e raccogliere consenso a favore dei loro movimenti politici.
Occorre però aggiungere che, accanto a questa tendenza, nel mondo cattolico ne esiste un’altra, di segno opposto, che si può qualificare “filosemita”. Alcuni ambienti cattolici si rendono conto che il modo con cui ci si rapporta agli ebrei non è cristiano, non è evangelico. Ritengono pertanto necessario operare un cambiamento. Uno degli obiettivi della mia ricerca è stato quello di mostrare che certamente esiste un filone di antisemitismo cattolico che passa dal tradizionale antigiudaismo religioso a intrecciarsi con le nuove forme di antisemitismo politico e sociale; ma al contempo esiste anche un filone minoritario, talora represso dall’autorità ecclesiastica, e però presente, che nonostante le sconfitte, di fronte a certe circostanze, riemerge. È un filone che lotta affinché quell’antisemitismo, che pure è così diffuso nella comunità ecclesiale e trova dei punti di appoggio nel governo della chiesa, venga abbandonato.
Ne troviamo traccia persino in uno dei momenti più significativi, e anche più tragici, del rapporto tra cristiani ed ebrei: l’affaire Dreyfuss. Si tratta del momento di massimo trionfo dell’antisemitismo politico, in cui anche i cattolici cavalcano l’ostilità antiebraica per ottenere consenso. Alla fine dell’Ottocento, come è noto, sull’onda della Rerum novarum, nascono infatti in varie paesi movimenti democratico-cristiani. In tali movimenti l’antisemitismo è piuttosto forte. Il caso più clamoroso è la Democrazia cristiana francese: nei suoi congressi viene chiamato a parlare Drumont, un professionista dell’antisemitismo, cioè un personaggio che costruisce le sue fortune, politiche ed economiche, proprio attraverso la diffusione di libri, riviste, opuscoli che incitano alla lotta antisemita. Purtuttavia, anche in questa fase di intreccio tra cattolicesimo e antisemitismo, emerge un gruppo di cattolici che si costituisce in comitato dreyfusardo. Si tratta di una piccola associazione, radicata soprattutto a Lione: legata alla tesi di una compatibilità tra cattolicesimo e diritti umani, essa si impegna perché siano garantiti i diritti fondamentali a Dreyfuss. Inoltre si può rilevare un fatto significativo che ho cercato di mettere in rilievo nel libro: tra i più decisi oppositori di Drumont, c’è anche un irregolare della cultura cattolica come Léon Bloy. Il suo libro, “Le salut par les juifs”, che pure non è tenero nei confronti degli ebrei, comincia infatti con una lucida denuncia del fatto che Drumont ha trasformato l’antisemitismo in una lucrosa professione e che le sue concezioni non hanno nulla da spartire con il cristianesimo.
Esiste dunque nella storia del cattolicesimo un movimento filosemita che, pur minoritario, consegue a un certo punto il risultato che voleva ottenere, fin dal 1788, Henri-Baptiste Grégoire. Questi, parroco in Lorena, uno dei luoghi dove era più presente la comunità ebraica, all’epoca scrisse un opuscolo in cui affermava che non si potevano attribuire agli ebrei caratteristiche generali, dovevano essere giudicati, come tutti gli uomini, in quanto singole persone operanti in uno spazio e in un tempo determinati. Per rendere poi migliori gli ebrei che si comportavano male, bisognava rendere migliori i cristiani. Nasce qui un orientamento autocritico, volto alla riforma delle posizioni cattoliche, che continuerà nell’epoca successiva con varie modalità ed esiti alterni, ma che alla fine riuscirà a raggiungere l’obiettivo auspicato. In effetti la riforma post-conciliare della liturgia, promulgata da Paolo VI, è una testimonianza del profondo mutamento di atteggiamenti verso gli ebrei, cui si comincia ora a guardare con occhio fraterno e benevolente. Gli interventi su questa liturgia nell’epoca di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno fatto vacillare, pur senza scardinarli, questi risultati. Il rapporto con gli ebrei non è dunque ancora pienamente risolto, ma senza dubbio nelle posizioni ufficiali della chiesa odierna non c’è più alcun spazio per l’antisemitismo. È stato infatti esplicitamente e ripetutamente condannato.
La storia ci restituisce, insomma, a proposito del rapporto tra cattolici ed ebrei una realtà complessa che di volta in volta, nel variare delle situazioni storiche, propone antigiudaismo, antisemitismo, filosemitismo. Ma un’altra questione specifica si deve a questo proposito approfondire: per capire correttamente le posizioni della chiesa occorre tenere conto anche delle sue articolazioni interne. Ci si è talora chiesti, come sia stato possibile, quando già l’antisemitismo dilagava in Europa e si annunciava la tragedia della Shoah, che la chiesa abbia mancato completamente di svolgere un ruolo profetico, rivelandosi incapace di vedere e capire la portata di quello che stava succedendo. In realtà la chiesa è una struttura complessa in cui coesistono vari livelli di responsabilità di governo.
A livello centrale, non c’è certamente stata, fino al Concilio Vaticano II, un sconfessione esplicita nei confronti dell’ondata antisemita che ha percorso la cultura europea (e non solo europea) a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. A queste date nel magistero pubblico del papato si registra piuttosto un’indiretta, ma abbastanza percepibile, indicazione che gli ebrei sono socialmente pericolosi, dunque vi si trova una qualche forma di incoraggiamento a limitarne i diritti civili. Quando il magistero prenderà pubblica posizione sugli ebrei si muoverà lungo due linee; la prima si fonda sulla denuncia delle violenze: gli ebrei sono pericolosi, occorrono forme di limitazione della loro capacità giuridica, ma non deve essere usata violenza nei loro confronti. Si può certo trovare qui uno dei punti dell’ambiguità del magistero pubblico e ufficiale della Chiesa. In effetti ci troviamo davanti a una denuncia della violenza contro gli ebrei che non si traduce in una presa d’atto che la dichiarazione di inimicizia, di cui si è in realtà portatori, può condurre proprio a quella violenza che si riprova. Se è indubbio che l’autorità ecclesiastica ha condannato le violenza antiebraiche, resta il fatto che il suo messaggio indeboliva questo richiamo.
In secondo luogo, il magistero pubblico e ufficiale della chiesa si è espresso contro l’antisemitismo di tipo razzistico. Ma anche in questo caso il suo insegnamento non è stato privo di ambiguità.
Nell’età di Pio XI, ad esempio, il papato proclama l’esistenza di un antisemitismo illecito, che va combattuto (appunto quello a base biologica), ma poi sostiene anche l’esistenza di un antisemitismo lecito, moralmente accettabile, perfino lodevole. Tale antisemitismo si indirizza -senza fare violenza nei confronti degli ebrei, anzi, condannandola- a prendere misure di tipo giuridico per limitarne i diritti. Ma una volta che si distingue tra un antisemitismo vero e un antisemitismo falso, uno lecito e uno illecito, si fa davvero un’operazione di lotta nei confronti dell’antisemitismo? In realtà, quando la lezione del disprezzo, per riprendere le parole di Isaac, ha messo in moto profonde pulsioni di ostilità, contrapposizione, avversione, inimicizia, la convinzione di poter frenare gli istinti giudeofobici, isolandone la degenerazione violenta e razzistica, diventa una pretesa irrealistica.
Solo la tragica esperienza della Shoah ha condotto Roma a mettere in questione la persuasione di poter moralizzare l’antisemitismo, distinguendo al suo interno una forma corretta e una forma condannabile. Sia pure con fatica e lentamente, anche il magistero ecclesiastico ha preso atto che si era rivelata fallace la convinzione di controllare le modalità di un antisemitismo che non veniva rigettato in blocco, ma solo nelle forme giudicate incompatibili con l’etica cristiana. Di qui il mutamento di atteggiamenti che si è imposto a partire dagli anni Sessanta del Novecento. Ma proprio questo percorso invita a una considerazione di fondo. Non è possibile proiettare sul passato le acquisizioni recenti. Non si tratta solo di un astratto rispetto della verità storica, che pure è un valore non trascurabile; solo la consapevolezza che le conquiste cui si è arrivati sono il frutto di un processo che è scaturito dalla volontà di correggere gli errori compiuti può costituire la base per mantenerle. La corretta conoscenza dell’antisemitismo passato è la via che ne impedisce la rinascita.
Ma, per tornare al punto in questione, se dal governo centrale della chiesa passiamo ad altri livelli di responsabilità, a quello episcopale, ad esempio, ritroviamo posizioni molto articolate e differenziate. Accanto a ordinari, come il patriarca di Venezia, Piazza, all’epoca del fascismo, o il vescovo Carli, durante il Vaticano II, di cui è innegabile l’antisemitismo, ci sono anche vescovi che praticano il filosemitismo. Il vescovo di Cremona, Boromelli, proprio all’epoca del caso Dreyfuss e delle vicende del partito sociale cristiano austriaco, in seguito a una serie di viaggi che intraprende in Francia, Svizzera e a Vienna, pubblica, una volta rientrato in Italia, un libro in cui sostiene che l’antisemitismo non è cristiano. Qui non si distingue tra un antisemitismo lecito e uno illecito. L’antisemitismo, in quanto tale, è giudicato antitetico al cristianesimo.
Ancora più frastagliata la situazione se guardiano ai fedeli comuni. Non è difficile individuare durante il ventennio fascista una serie di intellettuali cattolici -un esempio: il direttore della “Rassegna nazionale”, De Rossi dell’Arno- che non solo hanno manifestato il loro antisemitismo, ma non hanno nemmeno esitato a proclamare, in contrapposizione a quanto sosteneva Roma, la piena conciliabilità tra religione cattolica e antisemitismo razzista. Tuttavia possiamo anche individuare personaggi con ben altri orientamenti.
Già nel ’33 Edith Stein, una ebrea cattolica di straordinaria finezza intellettuale, invocava da Pio XI una parola di condanna delle leggi razziali naziste, lanciando un preciso monito: se non si denuncia l’antisemitismo, il silenzio sulla persecuzione degli ebrei verrà rimproverato alla chiesa. A questo proposito si deve ricordare che anche il cardinale Tisserant, uomo di curia, prefetto della Congregazione per la chiesa orientale, scriveva nel 1940 all’arcivescovo di Parigi che la Santa sede avrebbe pagato per la politica di comodo che aveva seguito davanti alla persecuzione antiebraica. Dunque, anche personaggi che avevano effettivi ruoli di governo -Tisserant apparve come papabile nel conclave che elesse Giovanni XXIII- proponevano linee che trovano rispondenza in atteggiamenti innovativi circolanti nel mondo cattolico.
Insomma, la realtà ecclesiale si presenta molto composita, molto articolata, molto frastagliata. Va ricostruita in tutta la sua complessità per giungere all’espressione di un giudizio storico in grado di evitare banalizzazioni, semplificazioni, generalizzazioni. Ma credo soprattutto che la ricostruzione storica non debba essere finalizzata alla formulazione di un giudizio morale. Il compito della storia è di restituire, nella maniera più precisa possibile, quello che davvero è accaduto, astenendosi dall’assolvere o dal condannare i personaggi presi in considerazione. Il privilegio di non essere coinvolti direttamente nelle vicende in esame ci consente oggi di provare a essere più vicini a questi uomini che si sono trovati nelle drammatiche condizioni di dover fare delle scelte da cui dipendeva la vita o la morte, quindi di provare a capire perché le hanno fatte, di vedere a quali risultati hanno portato e, infine, di trarne un ammaestramento. Credo sia questo il compito che ci spetta: guardare al passato nella persuasione che solo sapere cosa è effettivamente successo ci consente di edificare un futuro diverso e migliore.