LIMPIEZA
DE SANGRE
L’accusa di deicidio nasce con l’idea di andare a riconquistare Gerusalemme. Le leggi spagnole sulla purezza, strappo gravissimo, ma tollerato, all’universalismo cristiano. Le conversioni forzate. L’orrore per ogni idea di emancipazione dell’ebreo, che minava l’unica convivenza possibile, quella servile. Intervista a Anna Foa.
Apparso originariamente su Una città n. 67, aprile 1998
Anna Foa è ricercatrice presso l’Università di Roma. Si è occupata di storia della cultura nella prima età moderna, di caccia alle streghe e di storia della mentalità. Tra i suoi libri pubblicati ricordiamo: Ateismo e magia, La stregoneria in Europa, Ebrei in Europa.
Il “peccato originale” alla base dell’avversità della Chiesa nei confronti degli ebrei è riconducibile all’accusa di deicidio?
Contrariamente a quello che si può pensare, l’accusa di deicidio, almeno in quanto costruzione sistematica della sua idea, è abbastanza tarda. Così sostiene, ad esempio, lo storico Jeremy Coen, che ha dedicato degli studi all’accusa di deicidio nella formazione dello stereotipo dell’ebreo. Essa va fatta risalire ai tempi della prima crociata, momento in cui la società cristiana è di nuovo concentrata, dopo tanto tempo, sul problema dei luoghi santi, della messa a morte di Gesù. Ovviamente, la questione del deicidio è presente anche nei testi cristiani, nella patristica, ma senza una particolare insistenza su questa accusa. Il suo rilancio e il suo potenziamento appartengono ad un nuovo rapporto con la visione di Cristo e con tutta la tradizione cristiana. Nei testi precedenti a questo periodo -per esempio in un libro francese dell’ottavo secolo, il cui autore era un vescovo famoso per essere uno dei più avversi agli ebrei, Agobardo di Lione- l’accusa principale riguarda il non aver voluto accettare il messia, quindi l’incredulità rispetto alla figura di Cristo, e non l’accusa di deicidio. L’emergere in un’età così tarda di tale accusa è allora interessante per ribadire che questa costruzione antisemita è un processo interno alle necessità del cristianesimo.
Come si spiega il riemergere, dopo tanto tempo, di questa accusa?
In realtà, il processo accusatorio non viene mai del tutto interrotto. Lo si può riscontrare un po’ ovunque: in San Paolo, nei Vangeli, e anche successivamente. Solo che all’inizio su questo punto non viene posta molta enfasi. Quando, con la prima crociata, ritorna con forza l’idea di andare a riconquistare i luoghi della vicenda di Cristo, quando la Chiesa ha bisogno di sottolineare e mettere al centro della sua liturgia la passione di Cristo, il deicidio diventa rilevante nelle accuse contro gli ebrei.
Che ruolo ebbe S. Paolo?
Paolo, nel ruolo di fondatore del cristianesimo, sente l’esigenza di staccarsi, di differenziarsi dall’ebraismo, ossia di porre la sua dottrina come sostitutiva del patto con Dio e come instauratrice del nuovo patto. Questo è il nodo centrale della nascita del cristianesimo. Però Paolo è una figura ambivalente. La Lettera ai romani, infatti, è anche il fondamento teorico, poi ripreso da Sant’Agostino e dal diritto canonico, della presenza ebraica in seno al mondo cristiano. Questo è un aspetto rilevante, perché la Chiesa ha sempre convertito gli infedeli con la forza, con la spada, non ha mai concesso una presenza di infedeli al suo interno, fatta eccezione per i musulmani, e solo in determinate aree. Invece, sulla base del diritto romano prima, e del diritto canonico più tardi, viene accettata appunto la presenza ebraica. Allora la Lettera e i testi di Agostino diventano punti fondamentali per accettare questa “intrusione”. In Paolo, tuttavia, sono presenti anche i segni di una tradizione nuova, rimasta minoritaria, ostile agli ebrei, che è contenuta nella Lettera ai Galati e nella Lettera ai Corinzi. In questi testi Paolo, in un contesto di comunanza ebraico-cristiana (anche se c’erano forti polemiche sul mantenimento della ritualità ebraica, sulla circoncisione), sostiene con una frase, che successivamente è stata ripresa anche con violenza dalla tradizione antiebraica, che basta poco lievito per far lievitare tutta la pasta. Quindi è sufficiente un piccolo elemento di ebraismo, appunto la circoncisione, l’osservanza del sabato, per farlo diffondere ovunque. In Paolo questo concetto è sottolineato con forza proprio per un’esigenza di differenziazione. In tutti quelli che l’utilizzeranno nei tempi a venire sarà, invece, l’elemento di rottura contro gli ebrei per evitare la loro “contaminazione” nei confronti della società cristiana. Quindi, la presenza ebraica è tollerata, ma con estrema cautela affinché il “cancro” non pervada tutto il corpo sano. Bisogna poi prestare attenzione ad un aspetto decisivo: la contaminazione dell’idea. Cioè non è l’ebreo in quanto persona che contamina, ma è l’errore che l’ebreo rappresenta: l’osservanza di riti proibiti, l’elemento d’intrusione nell’ordine religioso cristiano. Solo più tardi, dopo il 1200, il concetto di contaminazione si estenderà anche alla persona. Nel Trecento, in Provenza, usciranno addirittura delle leggi che vieteranno agli ebrei e alle prostitute di toccare il cibo nei mercati, a meno che non abbiano deciso di comprarlo, con tutta una serie di indicazioni in cui la concezione fisica dell’ebreo si consolida. L’esistenza di questa tradizione, comunque minoritaria, è quella che secondo me impedisce di distinguere così nettamente una tradizione antigiudaica tutta teorica, fondata sul rifiuto della fede ebraica, della credenza ebraica, ma non dell’ebreo, dalla tradizione antisemita che, viceversa, si fonda su altri elementi: l’omicidio rituale, l’avvelenamento dei pozzi, ecc. Queste due tradizioni si mescolano. La loro fusione si accentuerà dal ’200-300 in poi, ma nella figura di Paolo è ancora possibile riscontrare la presenza di entrambi i filoni di pensiero. E’ difficile, allora, attribuire alla Chiesa solo una parte dell’errore e affermare, come ha fatto una parte della storiografia tra gli anni ’40 e gli anni ’50, dopo la Shoah, la sua innocenza, inventando una tradizione antigiudaica differente da quella antisemita per assolvere la Chiesa dall’accusa di essere stata complice della distruzione degli ebrei in Europa.
Puoi soffermarti su questi due concetti: antigiudaismo e antisemitismo?
L’antigiudaismo esprime una concezione antiebraica rigidamente religiosa. L’ebreo che si converte diventa un cristiano, l’ebreo non ha nessun elemento negativo in sé. Questa è la posizione religiosa ufficiale, che vede nell’ebreo un essere che religiosamente è in errore. Un uomo che comunque ha una fede, però sbagliata. La sfera dell’errore è una sfera teorica, mentale, legata alla credenza, non è fisica, non appartiene all’essenza naturale dell’ebreo. Però, nonostante quest’affermazione di principio, la questione resta problematica. Infatti chi ha radici ebraiche, già intorno al Mille inizia a essere visto con sospetto.
Fino ad arrivare al 1300, al 1400, con l’accettazione da parte della Chiesa delle leggi di limpieza de sangre in Spagna, che rappresentano il rifiuto della concezione cristiana. C’è un articolo molto bello dello storico Yerushalmi, il quale, a proposito di questo periodo, fa un parallelo tra “l’antisemitismo”, così lui lo chiama, del 1400 e quello moderno della Germania intorno alla fine dell’Ottocento, caratterizzato dal rifiuto dell’integrazione ebraica. Yerushalmi afferma che sono fenomeni con molti aspetti comuni. Tutti e due, infatti, partono dal rifiuto dell’integrazione e vedono l’ebreo come qualcosa di assolutamente e naturalmente diverso. A mio avviso la diversità naturale emerge anche da tutta una serie di altri aspetti. La Chiesa infatti, non dimentichiamolo, accetta la limpieza de sangre. Non la importa in Italia e nel mondo, ma in Spagna l’approva. E si tratta di leggi che considerano un converso come marchiato irreversibilmente. La Compagnia di Gesù nel 1593 vara delle leggi che impediscono l’accesso nella Compagnia dei discendenti degli ebrei ad infinitum. Poi il criterio viene mutato e portato fino alla quinta generazione. In ogni caso sono princìpi che vanno contro la teoria del battesimo e la possibilità di conversione, provocando una situazione di grave contraddizione in seno alla Chiesa.
Le accuse di omicidio rituale, nate intorno al XII secolo in Europa, vengono combattute dai vertici ecclesiastici e i papi emanano anche delle bolle dove viene detto che gli ebrei hanno orrore del sangue, e dove viene smentito che ammazzano i bambini cristiani a Pasqua. E’ un’invenzione di coloro che vogliono impadronirsi dei loro soldi (c’è questo interessante topos nelle bolle papali: quando si proteggono gli ebrei si dice che le accuse contro di loro sono mosse da avidità). Quindi, formalmente, la Chiesa rifiuta quest’accusa, tranne che a Trento nel caso di Simone, dove comunque, successivamente, si tenta di frenare il culto sansimonino. Però anche i francescani vanno in giro a dire che gli ebrei uccidono i bambini. Il linguaggio è tipicamente cristiano e fa riferimento a una ripetizione della passione di Cristo. Infatti, in qualche modo, l’ebreo che si suppone uccida un bambino cristiano, riproduce in questo senso la passione di Cristo.
L’accusa dell’avvelenamento dei pozzi, così come di attaccare la lebbra, e poi la sifilide, sono altri elementi che focalizzano l’attenzione su aspetti “naturali”, fisici, dell’antiebraismo. Non siamo ancora al razzismo moderno, ma siamo ben oltre qualunque considerazione prettamente religiosa. Queste accuse infatti sono portate avanti dal potere laico: in Francia, in Inghilterra, sono le monarchie a condurre l’azione contro gli ebrei. Detto per inciso, i sovrani sono stati molto più duri di quanto non fosse il papato. Gli ebrei vengono cacciati dall’Inghilterra nel 1290, dalla Francia tra il 1306 e il 1394, dalla Spagna nel 1492. A Roma invece non avviene una vera e propria espulsione.
Che rapporto s’instaura a partire dall’impero romano fino al medioevo, tra la legislazione antiebraica laica e quella della Chiesa?
Sia il diritto romano che il diritto canonico mantengono entrambi una parvenza di cittadinanza, assente nei paesi tedeschi, inglesi o francesi, dove il rapporto è esclusivamente tra sovrani ed ebrei, con la conseguenza che il re può proteggere le proprie comunità, ma se decide di depredarle e sopprimerle lo può fare tranquillamente. C’è infatti un margine d’incertezza nel diritto delle monarchie assolute, non riscontrabile a Roma, dove è presente una tradizione di legge romana, che, non dimentichiamolo, considera gli ebrei dei cittadini. Nel codice teodosiano viene riconosciuta la religione ebraica come religio licita. Esso prevede una serie di gravi limitazioni, come quella di non poter costruire sinagoghe, il divieto del matrimonio misto, del proselitismo, di avere schiavi cristiani. Però, in ogni caso, Teodosio tutela la presenza ebraica. Stabilendo che non è un’eresia, afferma un fondamentale elemento di diritto che viene sancito a Roma, come nel resto d’Italia, sotto il dominio papale. Negli altri stati questo non avviene: gli ebrei hanno bisogno di carte ad hoc, personalizzate, oppure di gruppo, di comunità, ma in ogni caso legate alle decisioni del sovrano. E ogni nuovo re dovrà eventualmente confermare quanto stabilito, con il rischio, sempre presente, di essere cacciati in ogni momento. A Roma, viceversa, c’è l’idea di un patto, in qualche modo fondamentale, che lega gli ebrei e il papato nelle zone d’influenza del pontefice. Il patto prevede presenza e sottomissione, quindi una sorta di stato d’inferiorità codificato e regolato per legge. Finché gli ebrei non evadono da questa specie di gabbia, la possibilità di essere presenti è garantita. Nel caso di pratiche e affermazioni non in armonia con le regole dettate, la Chiesa può colpire gli ebrei, ma per molto tempo questo si verifica senza metterne in discussione la presenza.
Hai accennato a comportamenti variegati all’interno del mondo cattolico. Sono riscontrabili anche durante le crociate?
Quando nel 1096 le bande del conte Emiko di Leiningen, colui che compie i massacri più efferati a Mainz, Worms ecc., attaccano i nuclei ebraici sul Reno, lo fanno lungo il tragitto che li porterà in Terra Santa. Contrariamente a quanto si è detto fino ad oggi, la storiografia più recente ha affermato che gli attacchi vengono compiuti solo occasionalmente durante il viaggio. Resta il fatto che comunque decidono di eliminare gli elementi estranei dentro il mondo cristiano, prima di provvedere a quelli lontani. In questo senso c’è un’idea di purificazione molto forte. C’è un pensiero costante che sarà presente per lungo tempo: se le autorità non sono in grado di gestire la purificazione della cristianità, allora la missione la deve prendere in mano la gente comune. Si tratta quindi un’indicazione che viene dal basso e che produce una spinta per la riforma del cristianesimo. La Chiesa è visibilmente corrotta dal potere temporale e accetta gli ebrei nel suo seno: allora, se non lo fanno i vertici -pensa la gente- starà a noi assolvere il compito di purificare. I vescovi vivono infatti un buon rapporto con le comunità ebraiche lungo il Reno; queste sono assai fiorenti, hanno una profonda cultura di esegesi, e hanno fornito grandi rabbini. Quindi, pur rimanendo nettamente separate dall’ambito cristiano, sono estremamente radicate. Infatti quando si verificano questi pogrom, i vescovi spesso vorrebbero proteggere gli ebrei. Cercano di farlo a Treviri, ma non ci riescono; forse non hanno gli strumenti per farlo o forse, in alcuni casi, non s’impegnano fino in fondo.
Le cronache ebraiche di quel periodo, comunque, sottolineano il ben volere delle autorità. Certo, questo in realtà non vuole dire molto, perché è un topos tipico degli ebrei dire: “Il volgo ce l’ha con noi, invece i sovrani, i vescovi ci proteggono”. Quest’aspetto emerge anche nelle cronache spagnole. E’ poi da tenere presente che tali conflitti non hanno a che fare con il prestito, perché siamo nel 1096, è troppo presto. Il motivo per il quale gli ebrei vengono sterminati è prettamente religioso, legato a un’idea di pellegrinaggio religioso, estremamente potente in questa fase nella cristianità. Sembra infatti che in alcune città gruppi di abitanti locali si siano uniti ai massacratori, cosa abbastanza “normale” in momenti di particolare euforia e di scatenamento di odi e rancori.
Le cronache cristiane post-crociate, comunque, sono molto negative sulle spedizioni di Emiko, il quale o uccide o converte a forza, dando un colpo molto duro alla presenza della cultura ashkenazita in Germania. Per la prima volta la Chiesa si trova di fronte ad episodi di conversione di massa violenta. Inoltre, questi ebrei convertiti violentemente, nel momento in cui tornano all’ebraismo, sono estremamente scomodi per i vertici ecclesiastici. Lo sono perché in teoria sono degli apostati. In definitiva, questi massacri hanno creato ulteriori problemi. Goffredo di Buglione, cioè il capo della crociata ufficiale, a Gerusalemme, nel saccheggiare la città, brucia la sinagoga con gli ebrei dentro.
Quello che si può affermare con certezza è che le stragi di ebrei in questo periodo non sono organizzate dall’alto e rappresentano un momento di non ritorno: da allora gli ebrei in Germania inizieranno a costruire delle mura intorno ai loro quartieri.
Che tipo di rapporto c’era tra potere laico e potere religioso riguardo la questione ebraica?
C’era spesso conflitto. Forse è opportuno puntualizzare con alcuni esempi. Gli ebrei pensavano che il papa li proteggesse, ci sono testi, lettere, che lo testimoniano. Possiamo cominciare da Gregorio Magno, il primo che opera, rispetto agli ebrei, la scelta di garantirne la presenza rifiutando la conversione forzata. In un periodo in cui questa pratica in Oriente era ben radicata, lui compie una svolta, sostenendo che la conversione deve essere spontanea. Gli ebrei vedono in lui un punto di riferimento sicuro e gli scrivono denunciando episodi di battesimo imposto in Sicilia, in Sardegna, a Marsiglia, o di sinagoghe trasformate in chiese. Questo rivolgersi al papa per chiedere protezione dal clero locale o dal potere civile, è un segnale importante. Altro esempio: c’è un testo anonimo del 1007 (in realtà probabilmente è un falso, perché sono tutte cose che non possono essere state scritte prima del 1200), con un richiamo alla diretta sovrintendenza papale sulla ritualità ebraica, sulla legge ebraica. C’è insomma l’idea che il pontefice debba vigilare sugli ebrei, affinché essi siano dei bravi credenti all’interno della loro comunità. Questo testo nasce da una lettera di ebrei francesi che si rivolgono al papa e chiedono protezione di fronte ad una persecuzione locale, confermando quanto sia ritenuta fondamentale e naturale la sua azione per impedire qualunque forma di persecuzione. Si rivolgono al papa dicendo: “Tu sei il protettore della Torah, colui che può decidere sulla legge degli ebrei”. E’ un testo molto significativo. In quello stesso periodo, e precisamente nel 1231, avviene anche il rogo del Talmud. L’episodio è dovuto al fatto che, essendo il papato avignonese soggetto al re di Francia, è piuttosto ostile agli ebrei.
Giovanni XXII, fra l’altro, tenta un atto di espulsione di ebrei da Avignone e anche a Roma ci sono episodi rimasti avvolti nel mistero. Un convertito, Donin, accusa il Talmud di essere una legge nuova e di essere pieno di bestemmie. Sono due accuse diverse, perché “legge nuova” significa un’eresia all’interno dello stesso ebraismo. Il re di Francia lo fa sequestrare e in place de Grève c’è un grande rogo. E’ l’inizio della grande caccia ai libri ebraici. Però Roma non la porterà avanti fino al 1500. Il papa alcuni anni dopo scrive al re chiedendo di restituire il Talmud agli ebrei, dopo che questi si sono rivolti a lui, lamentandosi di non poter rispettare le loro leggi senza i loro libri e il Talmud, essenziali per seguire la loro dottrina. Innocenzo IV ribadisce al re che non trova giusto impedire ai seguaci di una religione consentita di leggere liberamente i propri testi religiosi. Il papato conduce una battaglia feroce anche contro l’introduzione dell’inquisizione portoghese e combatte -dopo averla consentita-, anche quella spagnola. Sono conflitti e non conflitti, perché Sisto IV emana una bolla che introduce l’inquisizione spagnola, dopodiché il papa successivo protesta contro i suoi arbitri. Qui i limiti sono assai fragili. La sensazione è di trovarsi di fronte a conflitti di carattere meramente giurisdizionale. Quello che turba il papato non è il fatto che ci siano continuamente dei roghi, ma che i soggetti sottoposti ad una giurisdizione religiosa debbano sottostare ad una di carattere civile, la quale diventa sempre più uno strumento del re di Spagna. In linea generale, credo che la Chiesa si scontri con tutta una serie di punti, per esempio quello della forza, che creano delle grosse contraddizioni al suo interno. La Chiesa consente l’uso della forza e dà una definizione di conversione forzata sconcertante. Una conversione deve essere libera, ma una volta avvenuta, a meno che non sia apertamente forzata, deve essere mantenuta. Secondo questa indicazione però, l’unico caso in cui la conversione non risulta valida è quando un convertito, legato mani e piedi, viene immerso nell’acqua, e nonostante questo, continua a protestare a voce alta, dichiarando di non volersi convertire! La minaccia della spada infatti non è ritenuta sufficiente per farla definire conversione forzata, perché c’è sempre l’alternativa del martirio. Tuttavia, la Chiesa rimarrà autenticamente turbata quando si troverà di fronte alla conversione di massa in Portogallo. E non perché gliene importi tanto degli ebrei, ma perché tutto questo intacca una serie di punti cardine della religione cristiana e il suo rapporto di convivenza con gli ebrei. In qualche modo l’equilibrio esistente viene turbato dalla conversione forzata portoghese, in cui non si consente che agli ebrei venga concesso un giusto processo. Il rapporto tra i vertici della Chiesa e il potere laico è contrassegnato anche da momenti in cui i primi offrono un tacito consenso alle azioni delle monarchie. Per esempio ciò avviene nei confronti di Carlo V: dopo il sacco di Roma, con il congresso di Bologna, nel 1530, la Spagna risulta onnipotente in Italia. Il papato deve star zitto, per cui avalla le leggi della limpieza de sangre e lo fa per motivi politici. Tant’è vero che nella bolla relativa all’esclusione dei conversos dall’ordine francescano c’è scritto: valida solo per la Spagna!
Hai fatto cenno alla conversione. Puoi spiegarne meglio il meccanismo?
Innanzitutto la conversione non è uno strumento molto usato dalla Chiesa fino al tredicesimo secolo. Teoricamente era giusto convertire gli ebrei, però sarebbe stato opportuno farlo alla fine dei tempi, perché secondo Agostino la conversione degli ebrei avrebbe preceduto l’apocalisse finale. Va tenuto presente che nell’Alto Medioevo c’è una concezione della società per cui ciascuno deve rimanere nei propri ambiti e questo vale anche per gli ebrei. C’erano poi leggi, come in Aragona, che consentivano ai sovrani di sequestrare tutti i beni di un suddito convertito, perché il sovrano veniva a perdere le possibilità finanziarie che gli derivavano dall’avere un suddito ebreo. Che, tra l’altro, era più vantaggioso di un cristiano, visto che dipendeva direttamente dal re e quindi poteva essere tassato molto più pesantemente di qualunque altra persona. Quando avveniva la conversione, i beni finivano al sovrano per risarcimento. In questo periodo le conversioni sono individuali, motivate religiosamente e creano una situazione “ambigua”, con il rammarico di chi spesso constata di non essere accettato pienamente dalla società cristiana. Quando, per la prima volta, a metà del Duecento, i domenicani iniziano in Spagna una politica di conversione, la prima cosa che chiedono al re è di rinunciare al sequestro dei beni, visto come un deterrente molto forte, ma la monarchia non accoglie la richiesta. I sovrani spagnoli fanno propria la politica della conversione e questo penso sia l’elemento di rottura definitivo dell’equilibrio in Spagna, perché fino a che non si costringe l’altro con la forza a convertirsi, la convivenza è possibile e la società funziona basandosi comunque su una sorta di equilibrio. Nel momento in cui, invece, si decide di imporre a qualcuno di cambiare identità, si innesca un processo traumatico che mette in discussione una presenza assai radicata. Così dalla fine del Trecento, con i pogrom di Ferrante Martìnez, per continuare con Vincenzo Ferrer, che entra nelle sinagoghe con la croce in pugno e le consacra come chiese, fino all’espulsione finale, si compie un tragico percorso iniziato, appunto, con la politica conversionistica. A Roma l’interesse per questa strategia è molto basso. In compenso ci pensano i domenicani e i francescani a scatenarsi sul piano della conversione. Contrariamente a quello che ci aspetteremmo, la politica della conversione nasce infatti con i settori più riformatori della chiesa, quelli che si scagliano contro la mondanità del clero, quelli che reclamano una Chiesa più “seria”. Querini e Giustiniani, che hanno scritto uno dei libri più famosi in questo campo, sono autori di un saggio, indirizzato a Leone X, che propone la conversione e l’espulsione degli ebrei. Quindi, l’antiebraismo, legato ad una politica conversionistica attiva, prende piede dentro la chiesa romana verso gli anni Venti del Cinquecento, con un’escalation sempre più accentuata. I gesuiti a metà del ’500 iniziano, a Roma, una politica attiva di conversione, attivando una serie di strumenti ben precisi, quali la casa dei catecumeni (poi estesa a tutte le città italiane dove ci sono ebrei), fondata da Ignazio di Lojola, e una serie di bolle facilitanti la conversione. Per esempio quella del 1542, la Cupientes judeus, che elimina qualunque possibilità di sequestro di beni per un convertito, il quale mantiene il diritto all’eredità in seno alla propria famiglia, mentre prima gli apostati venivano diseredati. E poi c’è il ghetto, per chiuderli dentro il loro territorio in attesa della conversione.
Un’altra arma è l’aumento delle tasse per peggiorare le condizioni economiche della comunità ebraica e costringerla così a convertirsi.
In ogni caso, fino al Sette-Ottocento rimane un minimo di elasticità da parte dei vertici ecclesiastici. Per esempio il caso Mortara, il più famoso per quanto riguarda la conversione di un bambino, si verifica solo nel 1858. Nel Cinque-Seicento i teorici canonisti criticavano la conversione forzata dei bambini. Nel caso Mortara fu una serva a battezzare il piccolo perché temeva che fosse in pericolo di vita: il bambino fu preso e sequestrato ai genitori. Nel Seicento si apre un dibattito sui battesimi in vitis parentibus, e di fronte a casi come quello sopra raccontato la Chiesa acconsente che i bimbi ritornino nella famiglia d’origine. Man mano che si sviluppa il dibattito sull’emancipazione degli ebrei e la parola passa agli Stati civili e non più a Roma, man mano che il ghetto diventa sempre più una forma di sopravvivenza e gli ebrei negli altri paesi si emancipano, la Chiesa romana si chiude in una sorta di arretrato e vecchio rapporto con i “suoi” ebrei. Con l’arrivo dei francesi e l’abbattimento delle mura del ghetto, l’atteggiamento della Chiesa diventa sempre più di rottura con il mondo ebraico.
I “suoi” ebrei si stanno ribellando, stanno mordendo la mano che li ha nutriti e, in ogni caso, diventano sempre più i rappresentanti di un legame con un mondo esterno che si sta progressivamente laicizzando. Avviene una chiusura resa ancora più chiara dalla fine dello Stato temporale. Mentre gli ebrei continuano a considerarsi in un rapporto di equilibrio con i cattolici, questi li ricoprono di contumelie, accettano le accuse di omicidio rituale, rapiscono i bambini. Con la fine del potere temporale, non avendo più bisogno di governare gli ebrei, la Chiesa non sa più che farsene, e di conseguenza consente che tutto l’odio teologico esploda.
Ecco allora il rilancio dell’accusa di omicidio rituale con i pogrom, in particolare nell’Europa Orientale, in Russia, Ungheria, Cecoslovacchia, con processi cui partecipano giornalisti di tutto il mondo. La Civiltà cattolica scrive articoli terrificanti, in cui sostiene a spada tratta l’accusa di omicidio rituale. Se pensiamo che nel 1200 i papi scrivevano contro queste cose e che nel 1890 escono articoli di questo tenore, è chiaro che qualunque equilibrio tra i due mondi è completamente saltato. La Chiesa partecipa così in prima persona all’antisemitismo moderno, che è alla radice della Shoah. La battaglia per Dreyfus vede tutti i clericali schierati a fianco di chi accusava ingiustamente l’ufficiale francese. Questo, tra gli altri, è un esempio di come la Chiesa si sia schierata insieme alla parte più retriva e reazionaria del panorama politico e culturale europeo. C’è quindi un antisemitismo cattolico di fine Ottocento e inizio Novecento che a mio avviso è un fenomeno di tutto rilievo e che corrisponde ad una rottura molto netta con il passato.
C’è una sorta di crisi d’identità della Chiesa: ha perso il potere temporale e si è opposta con tutta la forza all’emancipazione. Del resto, le leggi razziali non sono altro che norme anti-emancipatorie, non sono leggi che portano alla Shoah, ma eliminano quell’emancipazione contro la quale la Chiesa ha combattuto per decenni.
La lotta contro l’emancipazione prevedeva che gli ebrei non fossero uccisi, ma messi in schiavitù?
Gli ebrei dovevano essere resi schiavi. Questa formula viene usata sia dagli imperatori in Germania, che dai sovrani in Francia ed in Inghilterra. In Spagna si chiamava “servus camerae”; “servus peculi mei”, così scrivevano i re spagnoli, aragonesi, castigliani. E a Roma, in una bolla del Duecento, si parlava di “perpetua servitus”. Gli storici hanno discusso molto su questo termine: “servo”. Non è che gli ebrei siano stati posti materialmente in uno stato di schiavitù. In questo caso “servo” è un termine tecnico, giuridico, che designa negli stati un rapporto di dipendenza dalla giustizia e a Roma implica, con la “servitus perpetua” -concetto teologico molto preciso-, l’idea che gli ebrei hanno perso il diritto alla parità, a qualunque diritto politico e civile, e quindi devono essere senza potere. Però, come afferma un’altra bolla, dal momento che sono destinati a servire, cioè disposti ad essere in uno stato d’inferiorità rispetto ai cristiani, si può comunque stabilire un equilibrio, anche se impari, tra due realtà ineguali. L’eguaglianza degli ebrei è un elemento teologico sconvolgente per la tradizione ecclesiastica. Questa conquista rompe il patto originario, perché in quanto depositari di diritti gli ebrei hanno anche il potere. E’ traumatico per la Chiesa pensare alla rottura di una tradizione che affonda le sue radici nel codice di Teodosio: le sinagoghe non possono essere messe sullo stesso piano delle chiese e dei luoghi di culto cristiano. Quando, nel 1671, ad Amsterdam nasce una sinagoga di pietra, il nunzio papale protesta: è inammissibile che gente così vile abbia edifici così alti. Questo elemento si salda con tutta la polemica sul potere occulto degli ebrei. Quando uno dei cardini dello stereotipo diventa il potere in mano agli ebrei, dobbiamo considerare che cosa deve aver significato per la Chiesa questo discorso, dato che alla base della convivenza con gli ebrei c’era per l’appunto la loro mancanza di potere, la loro condanna ad essere inferiori. Quindi, in una società estremamente laicizzata, trovare un punto di equilibrio diventa assai difficile, ed ecco che allora si è permesso lo scatenarsi degli atti peggiori della tradizione antisemita.
La Chiesa non è intervenuta perché non spettava a lei farlo, non essendo più la principale depositaria del governo delle cose ebraiche. Così quando gli ebrei di Roma si aspettano un intervento papale, Pio XII non alza un dito perché il papa non si sente in dovere di proteggerli. Un papa nel Medioevo lo avrebbe fatto. In realtà penso che Pio XII non lo abbia neanche lontanamente preso in considerazione, perché era molto accondiscendente verso i nazifascisti, ma comunque il punto è che l’uguaglianza formale non rende più necessario un intervento dei vertici della chiesa.
(A cura di Sergio Sinigaglia)